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Globalizzazione


“Apparentemente, la dignità della vita umana non era prevista nel piano della globalizzazione.”
ERNESTO SÁBATO


Globalizzazione è un termine alla moda, anche impegnativo, ma molto elastico, dai mille usi, soprattutto dalle mille interpretazioni possibili. Per cominciare, conviene leggere la definizione che, in termini ufficiali, ne dà l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE):


“Un processo attraverso il quale mercati e produzione nei diversi paesi diventano sempre più interdipendenti, in virtù dello scambio di beni e servizi e del movimento di capitale e tecnologia”.

Dizionari recenti che riportano il termine nell’accezione economica aggiungono che tale processo è dovuto anche allo sviluppo delle reti informatiche e della comunicazione.
Ovviamente non ci si può fermare alla definizione se si vuole sapere come e perché produzione e mercati diventano sempre più interdipendenti; come e perché beni, servizi, tecnologia e capitali, scambiandosi più di un tempo oltre i confini dei singoli paesi, spingono a forgiare un concetto nuovo, questa fantasmatica globalizzazione, definita da un vocabolo che suggerisce un sopraggiunto cambiamento qualitativo.


Come ricorda la Banca Mondiale,non esiste una definizione assodata del termine globalizzazione. Anzi, è proprio l’assenza di tale definizione a favorirne l’uso, la diffusione e l’associazione alle questioni le più diverse. “La globalizzazione” è sulla bocca di tutti, “la globalizzazione” è ovunque: sia essa mito o realtà – e nonostante la perplessità e la ritrosia degli economisti internazionali (sicuramente la categoria professionale più restia all’utilizzazione del termine) – “la globalizzazione” esiste, per il solo fatto che tutti sono convinti che esista. Ma questo non è tutto. “La globalizzazione” è il concetto simbolo degli anni ’90, “… l’idea chiave con la quale si identifica il passaggio della società umana nel terzo millennio”  (Waters). Tale indubbia rilevanza simbolica porta insito in sé il rischio di una sovrapposizione tra concetto e epoca storica di cui è simbolo. Ed è proprio la possibile assimilazione tra i due a rendere complessa la risposta alla domanda precedente: i giudizi positivi o negativi che si alternano potrebbero in fondo riguardare l’epoca in cui viviamo e potrebbero non esprimere altro che un orientamento sull’evoluzione delle profonde disparità attualmente esistenti tra poveri e ricchi, siano essi individui o paesi.

Da un decennio a questa parte gli scaffali delle librerie si sono riempiti di libri il cui titolo fa riferimento alla globalizzazione. Molti sono interessanti, altri invece francamente deludenti. Una buona parte esordisce sostenendo – come nella pubblicazione della Banca Mondiale a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza – che del termine globalizzazione non esiste una definizione assodata. La maggior parte fornisce in immediata successione una propria definizione fresca di conio. Quella elaborata da Roland Robertson può costituire un buon punto di partenza:

Con globalizzazione ci si riferisce sia alla compressione del mondo sia all’intensificarsi  della coscienza del mondo come un tutt’uno. (Robertson, 1992, 8)

Tale definizione, centrata sulla dimensione spaziale e sulla sua percezione, è esemplificativa di tutta quella letteratura associata alla “morte della distanza”, all’intensificarsi delle relazioni sociali che uniscono nel mondo luoghi distanti tra loro, in modo tale che ciò che accade a livello locale sia influenzato da ciò che accade a migliaia di chilometri di distanza. Ciò che tale definizione enfatizza è come ora il mondo sia più piccolo e come ciò che prima era lontano ora lo sia meno. Sebbene tale definizione possa riferirsi ai piani più diversi delle relazioni sociali, da quelli politici e militari a quelli culturali, è sul piano strettamente economico che questa trova la sua essenza. La globalizzazione è fondamentalmente un  fenomeno economico: è la tendenza dell’economia ad assumere una dimensione mondiale, anche se poi il fenomeno economico della crescente integrazione dei mercati dei beni, dei servizi e dei fattori produttivi può dar luogo a implicazioni politiche, culturali e ambientali. Detto questo, la definizione di globalizzazione aderisce alla realtà economica odierna? La dimensione globale e quella locale sono oramai sovrapposte? Il mondo è veramente diventato così piccolo?
Partiamo dalla prima domanda. Se il punto di vista è quello dei paesi industrializzati e di una parte dei paesi in via di sviluppo, la risposta è senz’altro positiva. Il commercio internazionale ha un peso rilevante e cresce in genere ad un ritmo più sostenuto di quello dei redditi nazionali; il paniere di beni acquistati dai cittadini di un paese è in parte composto da beni prodotti in altri paesi, siano essi beni finali o beni intermedi utilizzati nella produzione nazionale; il portafoglio finanziario dei risparmiatori nazionali è composto anche da titoli esteri; imprese multinazionali sono presenti sul mercato nazionale e lavoratori stranieri partecipano al mercato del lavoro nazionale; le imprese possono scegliere di localizzare fasi diverse della produzione in luoghi geograficamente distanti e sono evidenti i fenomeni di agglomerazione produttiva legati alla presenza di economie di scala. Ma anche se tutti gli elementi esposti caratterizzano l’economia contemporanea, la visione d’insieme generalmente proposta dai mass media è enormemente esagerata. La risposta alla seconda e alla terza domanda è conseguente. Il “globale” e il “locale” sono ancora dimensioni ben distinte e il mondo non è poi così tanto piccolo da rendere irrilevante la differenza tra nazionale e internazionale.Ma anche se la distanza non ha perso del tutto rilevanza e il mondo è assai meno piccolo di quanto  supposto dai teorici della globalizzazione è anche vero che la percezione del ridimensionarsi dell’elemento spaziale nelle relazioni umane si manifesta in relazione simbiotica con la percezione di nuove opportunità e soprattutto di nuovi rischi. Se la percezione dei secondi risulta prevalente ciò è dovuto alla evidente asimmetria temporale nel ponderare i rischi (presenti) e le opportunità (future). E’ come se la globalizzazione venisse percepita come un fenomeno inarrestabile e del tutto nuovo il cui effetto sugli individui è un aumento nel grado di incertezza con cui attuano le scelte presenti. Tale suggestione  è però fondata su due percezioni errate. La prima è che la globalizzazione sia un fenomeno nuovo; la seconda è che sia irreversibile. Mettere il tutto in una prospettiva storica può aiutare a distinguere tra ciò che è mito e ciò che è realtà.

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La globalizzazione non è un fenomeno nuovo. Prendendo a prestito i dati con cui si apre uno degli ultimi rapporti della Banca Mondiale (2002) è possibile identificare – come da definizione – la tendenza dell’economia ad assumere una dimensione mondiale. Limitandoci per il momento a tre variabili – flussi migratori, esportazioni e investimenti diretti all’estero nei Paesi in via di sviluppo- possiamo identificare il susseguirsi di tre fasi di globalizzazione. La prima coincidente con la fine del XIX° secolo, la seconda con gli anni dal 1945 al 1980 e la terza con la fine del XX° secolo.
La figura rende evidenti queste tre fasi e mostra come il processo di globalizzazione non sia irreversibile. Storicamente non lo è stato: il periodo tra il 1914 e il 1950 è stato caratterizzato da un peggioramento nelle relazioni internazionali tale da annullare l’effetto della prima ondata di globalizzazione. L’errore di percezione che identifica la globalizzazione con la fine del XX° secolo è invece dovuto al periodo storico cui si fa riferimento. Il confronto tra il 2000 e il 1950 tende a favorire l’affermazione che la globalizzazione sia un fenomeno esclusivo della fine del XX° secolo, ma andando indietro nel tempo fino al 1870 tale affermazione perde forza. Si potrebbe persino affermare che la seconda e la terza fase non sono altro che un recupero della prima fase di globalizzazione. Ma anche questo non sarebbe corretto, esistono notevoli differenze tra le diverse fasi. La globalizzazione della fine del XX° secolo non è né un fenomeno interamente nuovo né la replica di quella del secolo precedente.

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Intorno al 1870 si verificarono una serie di innovazioni tecnologiche cruciali per la diffusione internazionale del processo di industrializzazione: la costruzione di navi più robuste e veloci, con lo scafo in ferro e l’elica immersa, ridusse enormemente i tempi di navigazione; l’apertura del canale di Suez, nel 1869, dimezzò la durata del viaggio da Londra a Bombay; ma soprattutto l’inaugurazione del servizio telegrafico transatlantico, tra Londra e New York (1866), Melbourne (1872) e Buenos Aires (1874), permise alle comunicazioni transcontinentali di passare dalle settimane ai minuti.  La riduzione dei tempi di percorrenza e dei costi, sia del trasporto su rotaia che di quello  transoceanico, che della trasmissione delle informazioni via telegrafo, determinò quella accelerazione nei flussi commerciali internazionali, nei movimenti di capitale e nei flussi migratori che nella grafico abbiamo chiamato prima fase della globalizzazione. Ma se la rivoluzione tecnologica dei trasporti era stata il motore della prima fase di globalizzazione, le fasi successive furono il frutto di una diversa rivoluzione tecnologica, quella della trasmissione e dell’elaborazione dell’informazione. Alla diffusione internazionale del telegrafo nella seconda metà del XIX° secolo si aggiunse a partire dagli anni ’20 l’influenza di un altro mezzo di comunicazione: il telefono.Già nei primi anni di diffusione, il costo delle comunicazioni telefoniche a lunga distanza si ridusse enormemente. Dagli anni ’60
in poi alle innovazioni nella trasmissione si aggiunsero quelle nell’elaborazione dell’informazione. L’evoluzione del costo nell’uso di elaboratori elettronici a partire dall’utilizzo nel 1970 di un Mainframe IBM sino ai moderni computer dotati di processore Pentium. Lo sviluppo e la diffusione del computer da una parte e il progresso nella tecnologia della comunicazione – dal telefono sino all’estensione internazionale del world wide web – dall’altra, costituiscono l’equivalente per la seconda e la terza fase di globalizzazione della rivoluzione nei trasporti e nella diffusione del telegrafo nella prima fase di globalizzazione.
In sintesi, la prima fase e la seconda e la terza fase sono simili nel nesso che lega la tecnologia all’apertura dei mercati, ma tale somiglianza si riduce quando si tiene conto delle caratteristiche proprie della tecnologia nelle diverse fasi: soprattutto trasporti nella prima, soprattutto comunicazioni nelle ultime due. Ma se la globalizzazione è tecnologia, e la tecnologia è quel flusso inarrestabile che – a partire dal XIX° secolo – rende sempre più interconnesse le diverse aree del mondo, come è possibile spiegare la brusca interruzione nella prima fase della globalizzazione? Il problema è che, come dicevamo all’inizio, la tecnologia non è tutto.
Quello che accadde tra il 1914 e il 1945 è noto a tutti: due guerre e una crisi economica di portata internazionale. L’effetto complessivo sul grado di apertura dei mercati e sulla integrazione delle economie nazionali fu veramente impressionante. Nel 1950 il rapporto tra esportazioni e PIL mondiale era tornato al 5%, una percentuale analoga a quella del 1870. Questa inversione di tendenza porta ad affermare che “il protezionismo annullò 80 anni di progresso tecnologico nei trasporti” e la sostanza è inoppugnabile: la globalizzazione non è un fenomeno inarrestabile. Abbiamo oramai appurato che globalizzazione non è un fenomeno nuovo, possiamo dire che sia un fenomeno assolutamente dannoso o assolutamente benefico?

Svantaggi della globalizzazione

Un’azienda, inseguendo il profitto, riesce a produrre gli stessi prodotti di prima con un maggior margine, grazie al fenomeno della delocalizzazione, che consente ad esse di assemblare un prodotto al di fuori del paese di progettazione. Spesso in combinazione con delle fiscalità di vantaggio. Contro la globalizzazione, che secondo i più critici non è altro che una forma di capitalismo avanzato e sfruttatore, si sono mossi i movimenti di fine anni ’90 e inizio 2000. Brutalmente, il presidente del colosso multinazionale ABB e propugnatore dell’AMI (Accordo Multilaterale sugli Investimenti) afferma:
” Vogliamo investire dove vogliamo, il tempo che vogliamo, per produrre cosa vogliamo, approvvigionandoci e vendendo dove vogliamo e sopportando il minor numero possibile di obblighi (sociali, fiscali, ecologici)”.
Ecco come possiamo tradurre: il Capitale ha sempre di fronte un ventaglio di possibilità, e i suoi funzionari, in base ad esse, possono farsi i conti e decidere dove e come intervenire; ma i frutti della globalizzazione sono raccolti da quei paesi che hanno potuto, più che saputo o voluto, nella concorrenza spietata, attrarre capitali sul loro territorio con condizioni favorevoli. Sappiamo cosa questo comporta, senza che il soprannominato presidente multinazionale entri nei dettagli: governanti e sindacalisti non fanno che ripetere agli operai di starsene buoni affinché non sia minata la fiducia dei mercati nel paese in cui lavorano. Il fatto è che con la globalizzazione il salario medio in un determinato paese si confronta immediatamente con quello di altri paesi e la tendenza al livellamento si fa più forte.

Inoltre, la globalizzazione ha significato anche unificazione delle piazze finanziarie e l’aumento vertiginoso del potere della finanza, che ha potuto guadagnare miliardi di dollari operando sui mercati alternativi, ad ogni ora del giorno.

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I vantaggi della globalizzazione

L’economia globale è cresciuta a partire dagli anni Novanta. Ci sono paesi in via di sviluppo che si sono davvero sviluppati e hanno raggiunto livelli e condizioni di vita che prima potevano solo sognare. I mercati aperti e collegati consentono agli attori di muoversi rapidamente, realizzare profitti, ma anche vendere prodotti e servizi in tutto il mondo. Oggi ci sono molte meno differenze di prima, se parliamo di singoli stati.

La conoscenza e i saperi si sono diffusi. Più persone parlano lingue straniere e conoscono più paesi. La possibilità di viaggiare ha ridotto sensibilmente i gap culturali e sociali tra popoli. Nonostante le crisi di rigetto di questi ultimi anni, c’è molta più integrazione sociale, religiosa, di usi e costumi. Ci sono città che sono un vero e proprio specchio della globalizzazione. Nel passato, la maggior parte dei conflitti sono nati da queste differenze. Oggi che sono meno presenti, i conflitti sono delocalizzati, periferici, anche se c’è la minaccia del terrorismo.

Sono aumentate le occasioni per i grandi della Terra di vedersi, parlare, appianare le differenze, agire nell’interesse comune. L’Unione Europea è una grande anticipatrice degli elementi della globalizzazione, quasi la incarna: un organismo soprannazionale che regola i mercati e consente alle economie interne di prosperare. Anche i temi del riscaldamento globale e della difesa del pianeta hanno avuto uno slancio grazie al mondo globalizzato.

I mercati aperti e l’economia libera sono alla base delle libertà personali. Questo assioma è quasi del tutto accettato. Là dove c’è libertà economica, dove cadono le dogane e i dazi aumentano le libertà. Poter far circolare le merci e le persone tra vari paesi di differenti continenti consente un aumento delle libertà individuali, i paesi liberi si contagiano a vicenda, le persone migliori prosperano creando spesso la ricchezza dal basso. La globalizzazione ha aperto il mercato del lavoro. Come lato positivo oggi i lavoratori possono muoversi tra una frontiera e l’altra, trovare più occasioni, conoscere nuovi posti e avanzare nella carriera o cogliere nuove opportunità di business.

 

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