La Google generation criminale: Anche mafia e camorra sono su Facebook

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Criminalità e social


I camorristi usano i social network? E se li usano quali modalità d’ingaggio praticano? Per rispondere a queste due domande dobbiamo fare un passo indietro e soffermarci su alcuni aspetti preliminari.

Il rapporto Digital 2018 ha rilevato che il numero degli utenti connessi ad Internet nel mondo supera i 4 miliardi di persone; più della metà della popolazione terrestre è online. L’utilizzo dei social media cresce insieme ai “connessi”, con un numero di utenti superiore del 13% rispetto al 2017.G li utenti attivi sono ad oggi più di 3 miliardi nel mondo e 9 su 10 accedono via device mobile.


“In Italia il 73% della popolazione è online (43 milioni di persone), con 34 milioni di utenti attivi sui social media. Durante il 2017 si è registrata una crescita di 4 milioni di persone connesse ad Internet (+10% rispetto all’anno precedente) e una crescita di 3 milioni di utenti social media (+ 10% rispetto all’anno precedente).
Trascorriamo circa 6 ore al giorno online (quasi il doppio del tempo che passiamo davanti alla TV). Di queste ore, quasi 2 sono passate utilizzando una piattaforma social media”.

La parte del leone spetta a Facebook che con i suoi oltre 34 milioni di utenti copre il 57% della popolazione italiana. La fascia di età tra i 25 e 35 anni (23%) è la più rappresentata, seguita da quella con età compresa tra i 35 e i 45 anni (22%). Quindi, le persone tra i 25 e i 45 anni raggiungono il 46% dell’intera base. La fascia dei teenagers (13-17 anni) è la meno presente, conta solo il 4% degli utenti. Perciò, o i mafiosi sono tutti nel restante 43% della popolazione oppure sono amalgamati alla maggioranza del 57%. Come ha scritto Tonino Cantelmi:

“la rivoluzione digitale è tale perché la tecnologia è divenuta un ambiente da abitare, una estensione della mente umana, un mondo che si intreccia con il mondo reale e che determina vere e proprie ristrutturazioni cognitive, emotive e sociali dell’esperienza, capace di rideterminare la costruzione dell’identità e delle relazioni, nonché il vissuto dell’esperire”.

Pertanto, se il virtuale è un’estensione della vita reale anche l’esperienza criminale è parte integrante dell’ecosistema digitale. Il bullo, il delinquente, il mafioso cercano nei social un orizzonte culturale e criminale da condividere attraverso i contenuti multimediali.
Il passaggio dalla civiltà industriale a quella informatica sta ristrutturando i processi cognitivi: l’alfabetizzazione digitale avviene per induzione ed autoapprendimento. Chi impiega Google, Facebook, Youtube o qualsiasi altro strumento della Rete mette a frutto le proprie capacità di intuito e di emulazione, ovvero abilità e talenti che non
discendono dal grado di scolarizzazione individuale. Anche chi non ha raggiunto una sufficiente alfabetizzazione analogica può trovarsi a suo agio nell’esperienza virtuale; può far ascoltare la propria voce e prendere la parola senza dover passare per i canali dell’istruzione, del merito, della conoscenza, della professionalità o della competenza tecnico-scientifica. Ciò che conta non è il “sapere” ma il “saper fare”,ovvero la “metatecnologia”: la pratica che consente di assimilare l’uso individuale e sociale di una nuova tecnologia. Una prassi che segna una frattura con il passato: il trasferimento tecnologico, infatti, è la condivisione nel presente di un’innovazione che diventa consuetudine all’interno di un contesto relazionale. La “metatecnologia” è parte integrante della formazione empirica delle nuove generazioni. La diffusione della telefonia mobile, per esempio, ha trasformato la comunicazione attraverso l’uso massivo di messaggi di testo. Prima gli Sms, poi le App di instant messaging hanno convertito il linguaggio in una specie di “oralità scritta”, con una struttura asintattica e spesso agrammaticale: “i messaggi testuali includono forme linguistiche particolari che hanno l’obiettivo di compensare la mancanza dei codici comunicativi, gestuali, mimici e prossemici”.

La prossemica è la disciplina semiologica che studia i gesti, il comportamento, lo spazio e le distanze all’interno di una comunicazione, sia verbale sia non verbale. Wikipedia

Chi non partecipa al “gioco” rischia di cadere nel baratro del “digital divide” un vuoto in cui la tecnologia perde significato e diventa un problema, piuttosto che un’opportunità. Anche se, come spiega lo psicologo Giuseppe Riva, non è il dato anagrafico a identificare i “nativi digitali” ma la loro capacità di usare la tecnologia in maniera intuitiva, rimane il fatto che sono soprattutto le generazioni dei nati tra la metà degli anni Settanta e i primi anni del Duemila ad aver diffuso globalmente, attraverso l’uso degli smartphone, la condivisione di contenuti pubblici e privati sui social network: “La facilità d’uso di questi dispositivi ha rimosso la barriera linguistica che ha rappresentato a lungo il principale requisito di base per accedere alle potenzialità dei nuovi media. Oggi per poter usare smartphone e tablet non è necessario saper leggere o scrivere, basta saper controllare le proprie dita”. La contemporanea comparsa dei mobile device e dei social network (2007) ha decretato la nascita di un nuovo spazio sociale che è stato definito “interrealtà” in cui reti digitali on-line e reti sociali off-line si fondano: “A caratterizzare l’interrealtà è lo scambio esistente tra le diverse dimensioni: il mondo digitale influenza quello reale e viceversa; la dimensione pubblica influenza quella privata e viceversa”.
In questo riflesso di specchi la personalità dell’individuo, e quindi la sua quotidianità, diventa la somma delle azioni concrete praticate nel mondo reale e la condivisione di contenuti caricati nel Web. La percezione dell’io dipende allora dalla rappresentazione costruita attraverso le successive connessioni. Se questo vale per tutti gli utenti di Facebook, vale ancora di più per i mafiosi. Spesso, infatti, dimentichiamo che tra organizzazioni criminali e social media esiste un punto di contatto: il network. Una rete, materiale e immateriale, che definisce il “posizionamento sociale”nella corrispondenza tra reale e virtuale. Perciò se l’utente interagisce nella realtà all’interno di una “comunità di pratiche”, in cui si condividono esperienze, cultura e linguaggio, costruirà un profilo digitale che promuove la mafiosità nella dimensione “interreale”. Del resto, Riccardo Scadellari, esperto di marketing digitale, afferma: “La nostra identità digitale deve essere il più vicino possibile alla nostra vera identità. La costruzione del personal branding non significa creare un personaggio falso ed effimero”. Perciò, se l’identità mafiosa reale è prevalente prenderà il sopravvento nella gestione del personal branding digitale: la credibilità e l’autorevolezza del profilo social derivano dalla reputazione criminale della persona reale che conquista lo status di mafioso “interreale”.
Eppure, ogni volta che la cronaca ha trattato l’argomento mafie e Facebook, ha assunto toni allarmistici demonizzando il social network quale strumento della“globalizzazione mafiogena”. Il panico diffuso dai media svela lo “stereotipo progressista” secondo il quale la tecnologia dovrebbe produrre miglioramenti sociali, culturali, economici e civili con un andamento lineare ascendente che marginalizza i fenomeni di sottosviluppo. Le organizzazioni criminali, quindi, in un contesto dominato dalla logica degli algoritmi, sono relegate nell’immaginario
dell’anacronismo irrazionale e i mafiosi considerati esseri primitivi incapaci di controllare la tecnologia digitale.
In realtà, come qualsiasi altro utente, i camorristi hanno attraversato tre fasi di apprendimento “metatecnologico” sperimentando limiti e potenzialità del web partecipativo. In un primo periodo (2007-2012) hanno usato il mezzo in maniera ludica per raggiungere il popolo dei suggestionabili che naviga nella Rete, ma, non essendo ancora abili, hanno messo a rischio la regola aurea dell’omertà. Sono stati arrestati, infatti, alcuni latitanti che avevano poca dimestichezza nell’uso della geolocalizzazione: la pubblicazione di fotografie private ha consentito alla polizia
postale di rintracciare la loro posizione. Si è disseminato, tuttavia, un primo immaginario “social mafioso”: in questa fase nascono gruppi, pagine fan e profili fake che da un lato amplificano le imprese dei grandi boss del passato, dall’altro esaltano la potenza delle organizzazioni criminali nel presente. Si passa, così, a una seconda fase di consolidamento (2012-2016) in cui si radica una specifica retorica mafiosa. I giovani camorristi, in particolare, imparano a sfruttare il socialcasting “il cui processo distributivo fa riferimento ad una community di persone che decidono in completa autonomia di aumentare la circolazione di un contenuto grazie alle opportunità di condivisione rese possibili dalle nuove piattaforme tecnologiche”.
Condividendo messaggi testuali e frammenti audiovisivi espliciti si struttura “l’interrealtà” della camorra, che si manifesta concretamente tramite il corto circuito tra reale e virtuale. Il 16 ottobre 2014, infatti, Fabio Orefice, allora trentenne, è ferito nel corso di un regolamento di conti tra i clan del Rione Traiano a Napoli. Per niente intimorito sfida gli aggressori e posta su Facebook frasi inequivocabili: “il leone è ferito ma non è morto, già sto alzato. Aprite bene gli occhi che per chiuderli non ci vuole niente. Avita muriii [Dovete morire]”. Il messaggio è accompagnato dalle foto che ritraggono i punti del corpo in cui è stato ferito. Aggiunge, inoltre, immagini di armi e munizioni. Sei giorni dopo due sconosciuti a bordo di una moto di grossa cilindrata sparano raffiche di kalashnikov contro il portoncino della sua abitazione. Il clan rivale, che segue il profilo social di Orefice, reagisce realmente alle minacce virtuali. Il vissuto camorristico condiziona l’identità digitale che a sua volta soggiace all’influenza della realtà criminale. L’”interrealtà” mafiosa, dunque, tiene insieme reale e virtuale dando forma a una nuova dimensione spaziotemporale della criminalità organizzata. Si apre, a questo punto, la terza fase, quella attuale, dominata dalla “Google generation criminale”, ovvero i nativi digitali della metà degli anni Novanta capaci di sfruttare in maniera intuitiva e senza sforzo le potenzialità dei social media. Vivono immersi nel liquido amniotico dell’”interreale”
mescolando le esperienze devianti con le gesta dei loro “eroi” cinematografici, televisivi e dei videogiochi . Un processo di acculturazione criminale “metatecnologico” fondato sullo sharing online di modi di dire e di vestire, di posture del corpo da tenere, di armi da usare, di oggetti cult da possedere, di frasi da ricordare, di foto da condividere, di dialoghi da tramandare, di clip da visualizzare.Sono i prosumer dell’epica mafiosa: un continuo andirivieni tra immaginario e reale che rovescia la percezione del vissuto. È stato scritto che “I giovani camorristi vanno pazzi per Facebook”, che sono “padrini della camorra 2.0” e che usano i “social come un’arma” per veicolare “messaggi mafiosi e dichiarazioni d’intenti”. In realtà, come tutti i nativi digitali, sfruttano al massimo le potenzialità del mezzo indicando modalità d’uso ignote alle generazioni precedenti. Così accade che i boss più anziani chiedano alle giovani leve di controllare i movimenti dei nemici da colpire seguendo i profili Facebook o adoperino la trasmissione in diretta per comunicare con la rete degli “amici”. La strategia di identificazione è intrisa di “cultura del narcisismo”, esaltata dalla pratica del selfie.
Mostrano i loro volti e i loro corpi in atteggiamento glamour adoperando un linguaggio esplicito di “frasi fatte” (tratte dai film, dalle fiction, dalle canzoni, dai libri, dalle massime di personaggi famosi ecc.), copiate in giro dal web e risemantizzate dall’accoppiamento tra immagine e parole. Per esempio Francesco, volto da adolescente imberbe, si mostra a figura intera sull’uscio di casa mettendo in evidenza la mise e scrive: “Sparami ma non sbagliare perché se tocca a me vi faccio male”, che è la storpiatura di un verso della canzone Sparami della rapper Baby K: “Sparami ma non sbagliare/ Che se tocca a me ti faccio male”. Ovviamente la frase, scritta sul profilo di un giovane appartenente al clan dei “Fraulella” di Ponticelli mentre esce di casa, acquista un valore completamente diverso dal testo originale che esprime la ribellione di una donna nei confronti del maschilismo. Questi ragazzi, nel 90% dei casi, indossano capi d’abbigliamento costosi di una specifica marca (Dsquared2) ostentata come elemento qualificante. In un primo momento viene da pensare che vogliano dimostrare il successo personale (deviante/criminale) attraverso l’esibizione di indumenti esclusivi, nel senso che chi non li indossa è fuori dal loro mondo. Ma questa è solo una parte del processo di identificazione sociale.Se si presta la dovuta attenzione, si può notare che nella scheda anagrafica del profilo, la parte riservata al lavoro svolto, è inserita la dicitura “lavora presso Dsquared2” oppure “manager presso Dsquared2”. Che significa? Un’ipotesi plausibile è che il brand commerciale simboleggi metaforicamente l’appartenenza ad un brand sociale. Si sfoggia la marca di un capo d’élite per sottolineare  l’adesione, ad un’organizzazione selettiva a cui possono partecipare in pochi. Inoltre, si stabilisce un preciso criterio gerarchico tra chi semplicemente “lavora” e chi detiene il ruolo di “manager”. Anche i narcos messicani usano l’abbigliamento e alcuni tipi di marche per indicare l’affiliazione a un Cartello. Senza dimenticare che lo stile mafioso ha conquistato un suo spazio nel mercato del lusso. Tuttavia, indagando nel presente digitale, non può sfuggire che questa rappresentazione del sé indica una superiorità morale derivante dall’appartenenza ad un’organizzazione criminale elitaria. Il camorrista (o chi orbita intorno al clan) non è un delinquente comune.

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C’è un’altra pratica che rimane immutata nel passaggio dal reale al virtuale: l’esposizione dei tatuaggi. Se nella realtà la pelle disegnata è visibile solo alla cerchia dei simili, su Facebook diventa un’attestazione pubblica del proprio essere, un marchio inciso direttamente sulla pelle. Così come si mostra il brand stampato sulla maglietta, allo stesso modo i ragazzi di un clan del rione Sanità esibiscono sul petto la scritta “LOVE” dove la prima lettera è una pistola, la seconda una granata, la terza un rasoio divaricato, la quarta un kalashnikov. Anche oggi, come in passato, è diffusa la pratica dell’incisione di nomi di amici deceduti o di immagini religiose ma a questi si affiancano figure inaspettate come Joker – il cattivo del fumetto Batman – e Benito Mussolini. Nel primo caso si sta comunicando esplicitamente la propria collocazione nella società: sono coscienti di giocare un ruolo negativo a cui è associata la derisione verso chi si trova sull’altra “sponda”; nel secondo caso non c’è nessun riferimento ideologico: il duce è la trasfigurazione della capacità di comando, di mantenere l’ordine usando la violenza. In questa prospettiva il dittatore assume la qualità di un “grande boss” del passato che ha conquistato il potere sconfiggendo i nemici. Infatti, le sue massime sul profilo di Ciro Marfè, condivise sotto forma di meme digitali, non hanno una valenza politica ma sono inquadrabili come messaggi di avvertimento ai clan rivali. Il 26 agosto 2015 pubblica una foto, che ritrae il dittatore in divisa mentre stringe il pugno, su cui è montata la frase: “Se il destino è contro di noi peggio per lui”; l’11 aprile 2016 pubblica l’immagine di una lastra di marmo in cui è inciso l’aforisma mussoliniano: “Noi non vogliamo la guerra ma non la temiamo”. Walter Mallo, giovane boss emergente del quartiere di Miano, compensa postando, il 7 febbraio 2016, un meme di Fidel Castro: “¡Patria o Muerte, Venceremos!”.
L’esibizione della violenza come metafora del potere è centrale nella costruzione dell’immaginario social della camorra. Gli utenti devianti compongono un immaginario frammentato ma organico:
prendono dalla rete immagini di natura diversa (cinema, Tv, blog, siti, social network) e le rimontano adeguandole al proprio personal branding con un impression management a sfondo criminale. Può accadere, allora, che insieme a Toto Riina, Raffaele Cutolo, Michele Zagaria e Pablo Escobar vi siano Tony Montana, Jenni Savastano, ‘O Trac (personaggio delle serie Tv Gomorra), Michael Corleone, Bin Laden e Abu Bakr al-Baghdadi. Uno scenario globalizzato in cui realtà e immaginario, camorra e terrorismo si confondono producendo un messaggio violento originale e condivisibile in Rete.

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