Nepero e Laplace. E quindi uscimmo a riveder le stelle.

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La matematica, al contrario della letteratura, non vive di atti di fede.

Tuttavia.

Ho creduto che un triangolo iscritto in una semicirconferenza fosse rettangolo.

Ho creduto che due piú due facesse quattro in ogni caso, fortissimamente.

Ho creduto che la parabola fosse una conica con un fuoco all’infinito.

Ho creduto che la serie geometrica di ragione minore di un mezzo convergesse.

Ho creduto che alcune serie avessero una ragione.

Ho creduto, talvolta, di avere anche io una qualche ragione.

Ho creduto, soprattutto, che senza un sistema di vettori linearmente indipendenti non potessi costruirmi uno spazio. E nel teorema di Pitagora.

Ho creduto molto prima di capire.

Da ciò deduco che la matematica è un atto di fede fino a un certo punto e la letteratura, per converso, è un atto di fede da un certo punto in poi.

Non ho creduto che Dante fosse sceso all’Inferno e asceso prima al Purgatorio e poi al Paradiso.

Non ho creduto all’ossessione di Achab per la balena.

Non ho creduto che Mrs Dalloway avesse detto che i fiori li avrebbe comprati lei, e poi lo facesse.

Non ho creduto ai biscotti e alle bevande che rimpiccoliscono e ingrandiscono.

Poi sono stata tutte quelle cose e in quasi tutti quei posti (ma è perché non sono una viaggiatrice), e funziona ancora cosí, mi basta leggere.

Chiara Valerio – Storia umana della Matematica

Prima che Nepero, astronomo e matematico scozzese, introducesse i logaritmi, alcuni calcoli erano lunghissimi. I calcoli astronomici per esempio. Nepero definisce una funzione, il logaritmo, che trasforma le moltiplicazioni in somme, le divisioni in sottrazioni e le potenze in moltiplicazioni. Al liceo, mentre tutti si lasciavano spaventare dai logaritmi, io ne ero stregata.
Anche perché i logaritmi hanno forma di parola. Calcolavo continuamente logaritmi di qualsiasi numero utilizzando le tavole in appendice ai libri, quasi fossero sparite le calcolatrici, come se io pure fossi tornata a metodi di calcolo del diciassettesimo secolo. Per me, Nepero era un mago, come per i suoi contemporanei. Nepero, dicevano molti e nemmeno sottovoce, si occupa di magia, magia nera. Un illusionista. Senza Nepero tutti i matematici e gli astronomi avrebbero rinunciato a costruire il mappamondo dell’universo visibile, malinconicamente, per la noia dei calcoli lunghi ed estenuanti. Ogni volta che guardavo il cielo o che disegnavo sui bordi dei quaderni le costellazioni, ero certa che senza i logaritmi quell’universo che tanto mi faceva fantasticare avrebbe avuto forse un’altra forma. E questo mi era insopportabile.
Osservando le stelle a occhio nudo o con telescopi le cui lenti confondevano piú che mettere a fuoco, gli astronomi si stranivano quando le orbite di certi pianeti, o di certe stelle, che da sempre parevano regolari, cambiavano, si ammaccavano o si slabbravano. Una deviazione indicava la presenza di una massa che però nessuno vedeva, neppure sforzandosi molto. Cosí, gli astronomi passavano il tempo a calcolare. Calcolavano, calcolavano la posizione esatta di quella stella nera ed eventualmente per osservarla in un altro periodo dell’anno, con una luce, speravano, piú favorevole. Ma i calcoli erano complicati, cosí che prima dei logaritmi, quelle stelle oscure erano non solo invisibili, ma spaventose e schiacciate da grovigli di calcoli. Con l’avvento dei logaritmi, la notte ha cominciato a riempirsi di corpi celesti, ancora invisibili, ma la cui esistenza veniva annunciata dai calcoli. Queste stelle diventavano piú visibili mano a mano che i telescopi diventavano piú potenti e precisi. I logaritmi insomma avevano acceso quel cielo sotto il quale io – io come tutti – mi stendevo a fantasticare di delitti o di amore, di futuro e passato. I logaritmi, anche quando nessuno poteva vederle, dimostravano a tutti che c’erano piú stelle e quindi piú sogni. Per questo Nepero era un illusionista, per questo mi piacevano i logaritmi, per questo ogni volta che rientrando a casa, in qualsiasi periodo dell’anno, vedo le lucette di Natale accendersi e spegnersi intorno alla libreria, penso ai logaritmi che, addirittura, hanno acceso l’universo.
Tuttavia, se non fosse arrivato Laplace, grande ammiratore di Nepero e a lui sempre grato per l’invenzione dei logaritmi, con la sua Meccanica celeste, opera monumentale pubblicata nell’arco di ventisei anni, il modello dell’universo non sarebbe stato completo. I logaritmi, da soli, non ce l’avrebbero fatta. Laplace che ha dato il nome a due figli, a funzioni e a teoremi, oltre ad aver descritto il sistema dell’universo, ha descritto pure il sistema del caso, non solo applicato ai giochi d’azzardo, ma filosoficamente, ritenendolo una buona misura della nostra insipienza. Le buone stelle del caso, le stelle fisse del caso.
Pierre-Simon Laplace si era iscritto all’università di Caen, in Normandia, all’età di sedici anni per proseguire gli studi di teologia, tuttavia, aveva incontrato due uomini, della cui vita nulla si conosce tranne il fatto che siano stati suoi professori, Gadbled e Le Canu, che, intuendo il genio, lo avevano indirizzato e iniziato agli studi di matematica. Laplace, molto giovane e ancor piú conscio delle proprie capacità, era partito alla volta di Parigi con una lettera di Le Canu per D’Alembert.
D’Alembert, l’uomo dell’Enciclopedia, avvocato, matematico e filosofo, rimasto folgorato dal ragazzo, gli procaccia immediatamente un lavoro perché possa rimanere a Parigi. Laplace però si annoia perché il lavoro consiste nell’impartire nozioni elementari di matematica a giovanotti cadetti di buone famiglie. Ma resiste e studia tanto che la prima memoria che presenta per l’elezione all’Académie des Sciences è del 28 marzo 1770 e Laplace ha appena ventun anni (verrà ammesso solo tre anni piú tardi).
Laplace non era simpatico. Pensava e sapeva di essere il piú grande matematico di Francia, metteva bocca su tutte le questioni aperte in ambito scientifico, dalla chimica alla fisica, scriveva memorie nelle quali non citava i precedenti contributi dei colleghi, ometteva le dimostrazioni dagli articoli sostenendo fossero semplici, spesso non lo erano affatto, e a un certo punto aveva manifestato insofferenza per il lavoro matematico di D’Alembert, che tanto lo aveva sostenuto, trovandolo obsoleto. Nel 1785, come componente della commissione esaminatrice per la Regia Scuola Militare, valuta e promuove Napoleone che nel 1799, primo console dopo il colpo di stato del 18 brumaio, lo nominerà ministro dell’Interno (e lo solleverà dall’incarico, dopo sei settimane, perché, come scriverà nei diari dell’esilio a Sant’Elena, Laplace portava lo spirito dell’infinitamente piccolo nell’amministrazione).


La storia politica di Laplace è la storia di un voltagabbana e d’altronde l’unica faccenda, di natura non matematica (se ha senso una tale distinzione), sulla quale non avesse mai cambiato opinione era l’ateismo, riteneva il cristianesimo una favola ed è celebre il suo aver definito Dio come l’ipotesi della quale non aveva bisogno per dimostrare il sistema dell’universo. Aveva fatto parte della commissione per la standardizzazione dei pesi e delle misure ed era stato consultato riguardo l’introduzione del sistema metrico nel calendario della Rivoluzione. Era certo che il calendario non potesse funzionare perché la durata dell’anno politico non teneva conto dei suoi dati astronomici, ma non aveva fatto obiezioni. Voleva studiare tranquillamente, cosa che gli aveva procurato le antipatie di colleghi accademici ferventi rivoluzionari. Voleva studiare tanto tranquillamente che quando, nel 1814, si era accorto che l’avventura napoleonica stava giungendo al termine, aveva favorito il rientro dei Borboni e, al loro insediamento, era stato nominato marchese.
Le notizie biografiche di Laplace raccontano di un’infanzia di stenti e privazioni, io non ci ho mai creduto. A Laplace piaceva l’idea di essere nato povero, perché quella miseria oscura facesse risplendere maggiormente i suoi meriti e i suoi successi, e perché tutti si stupissero per la rapidità della sua ascesa sociale, politica e culturale.
Nel suo saggio filosofico sulla probabilità scritto nel 1795 e pubblicato nel 1814 (prima con un Elogio di Napoleone e poi senza elogio dato il rinnovato clima politico), Laplace osserva che le faccende piú importanti della vita sono per la maggior parte questioni di calcolo delle probabilità. Si può anche dire che quasi tutte le conoscenze non sono che probabili e che nel minuto novero delle cose che si possono conoscere con certezza, anche nelle scienze esatte, le strade principali per giungere alla verità, l’induzione e l’analogia, si fondano sulla probabilità,cosí che l’intero sistema delle conoscenze umane è collegato alla teoria della probabilità. Nello stesso saggio, osserva che lo stato attuale dell’universo è effetto del suo passato e causa del suo futuro. E se ci fosse un intelletto capace di considerare tutte le forze della natura e tutte le posizioni di tutti i corpi e gli oggetti di cui la natura è composta, e se questo intelletto avesse una capacità di calcolo tale da poter analizzare i dati in suo possesso – e nemmeno per questo i logaritmi sono sufficienti –, allora il futuro non sarebbe incerto ma chiaro e leggibile come il passato.
Non ho mai deciso se Laplace, ritenendo di non essere lui quell’intelletto, si fosse messo a sistematizzare il calcolo delle probabilità per poter almeno intuire il futuro, o se invece, sempre ritenendo di non essere lui quell’intelletto, lo studio delle probabilità non fosse un atto d’umiltà per consentire all’umanità tutta insieme, attraverso le sue formule, di intuire un futuro che non sarebbe stato certo, ma nemmeno oscuro e tremebondo.


Logaritmi : Esercizi svolti

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