Vuoi capire davvero l’innovazione tecnologica? Studia Marx

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La nostra epoca è caratterizzata da una crescente innovazione tecnologica presente in tutti gli ambiti della nostra vita. Accanto a questa spinta allo sviluppo s’instaura una nuova struttura economica la cosiddetta new economy,
che si contraddistingue dalle forme economiche del passato per il fatto di essere caratterizzata da elementi inediti: opera in unmercato globale, riesce ad abbattere egregiamente i costi di lavoro ed è localizzata in uno spazio indefinito: la rete.

Nel libro “Al posto tuo: così web e robot ci stanno rubando il lavoro“,
Riccardo Staglianò passa in rassegna una serie di innovazioni tecnologiche in grado di mettere in luce le trasformazioni nel mercato del lavoro, tutte orientate verso una direzione che incarna lo spirito di questa
new economy.
Sono essenzialmente tre le tendenze messe in atto:


1 ) la robotizzazione dei metodi di produzione.

2) l’informatizzazione di mansioni di natura intellettuale per mezzo di sistemi algoritmici.

3) la digitalizzazione dei servizi in piattaforme sul web. E’ possibile citare tre esempi rispettivi per ogni tendenza sopracitata che possono testimoniare e rappresentare in maniera lampante la portata dei cambiamenti.

In primo luogo tra il 2012 e il 2015 l’azienda statunitense Rethink Robotics, fondata da Rodney Brooks, produce due robot: Baxter e Sawyer due robot in grado di svolgere rispettivamente compiti industriali semplici ma pesanti e operazioni più precise e minuziose, in grado quindi di sopperire alle mancanze del primo. Le novità di queste due
invenzioni sono i costi bassi – “circa un quarto rispetto alle macchine analoghe della generazione precedente” – e la programmazione estremamente semplice del loro lavoro. In secondo luogo, l’invenzione di una serie di software come Quill o Narrative Science, in grado di scrivere articoli giornalistici grazie a un sistema informatico algoritmico. Il loro lavoro si articola in tre fasi:

la prima è l’estrazione del maggior numero di dati da determinati documenti, senza i quali il software risulterebbe totalmente inutile;

la seconda è l’analisi di questi dati, grazie alla quale s’individuano i fatti da riportare;

la terza è la generazione della prosa, fase in cui il software scrive l’articolo in base ad una serie di modelli standard, uno per ogni specialità giornalistica.

Questi tipi di software riescono persino a scrivere gli articoli secondo un determinato stile o taglio editoriale:
“se la cronaca di una partita dovrà finire in un giornalino dei fan della squadra che ha perso, gli si può chiedere di non infierire e trovare delle formule che in qualche modo mitighino la sconfitta.”
In terzo luogo, la digitalizzazione dei servizi avviene mediante la creazione di piattaforme sul web, come Amazon – negozio globale online fondato da Jeff Bezos – o Uber, fondato da Travis Kalanick: un servizio di trasporto automobilistico che mette in contatto passeggeri e autisti mediante un’applicazione per smartphone. Le novità di queste piattaforme online è insito sia nello sfruttamento economico e lavorativo di chi usufruisce di esse, come negozianti o autisti privati che si affidano ad Amazon o ad Uber, in virtù di un’iper-funzionalità e convenienza che il cliente generalmente riscontra; sia nell’annientamento di tutta la concorrenza presente sul mercato fisico e online. I prezzi al ribasso, la facoltà di richiedere il servizio quando si vuole attraverso un semplice click sul
proprio dispositivo o ancora la possibilità, nel caso di Amazon, di restituire un oggetto comprato per avere il rimborso completo dell’acquisto: sono tutte funzioni che vanno a discapito di chi lavora attraverso queste piattaforme. Uber ad esempio, nonostante consideri i propri autisti come dei clienti che usufruiscono della piattaforma, trattiene il 20% del loro guadagno e può disattivarli se non rispettano certe pretese, tra cui “l’obbligo tassativo di presentarsi dal passeggero entro cinque minuti dalla chiamata”. Risultano essere due i fenomeni problematici determinati dalle tendenze innovatrici rappresentati in questi esempi. Il primo fenomeno è relativo alla sostituzione dei lavoratori con le macchine: uno studio di C. B. Frey e M. A. Osborne, ricercatori all’Università di
Oxford, testimonia come il 47% dei mestieri ricade nella categoria ad alto rischio di sostituzione nel prossimo futuro. Da una parte, la minaccia fa riferimento alla sostituzione dei lavori manuali attraverso l’automazione dei metodi di produzione; dall’altra invece, l’invasione di sistemi algoritmici e informatici comporta la sostituzione dei lavoratori negli ambiti lavorativi di natura intellettuale.
Sono due gli ordini di problemi determinati da questo rimpiazzo di manodopera per mezzo di queste metodologie. Il primo è strettamente economico e occorre affrontarlo partendo da un presupposto relativo al funzionamento del capitalismo: la teoria del plusvalore di Marx. Il modello marxiano descrive il modo in cui il datore di lavoro si
approprierebbe della differenza economica tra il costo della manodopera del lavoratore e il prezzo finale della merce. Questa teoria spiega anche il motivo per cui il sistema capitalistico ha una tendenza verso cicli di crisi economiche: il datore di lavoro subisce le spinte al ribasso dei prezzi delle merci dalla concorrenza presente sul mercato, che conseguentemente lo condiziona all’abbassamento del costo della manodopera. Per aggirare questa tendenza, il datore di lavoro ricorre all’utilizzo di macchine per rendere più produttivi i lavoratori. Ma l’aumento di produttività non è un bene: la maggior produttività per mezzo delle macchine non solo comporta un minor numero di lavoratori, ma porta a produrre un surplus di beni, a cui consegue la distruzione del valore della merce e, a sua volta, al crollo del mercato. Negli anni Settanta, questa tendenza alla crisi viene affrontata attraverso la pratica della delocalizzazione in Paesi emergenti come l’India o la Cina, luoghi in cui il costo della manodopera era bassissimo. Oggi invece, sembra che l’ideale da perseguire per affrontare questa tendenza sia il lavoratore robot: una manodopera automatizzata i cui costi di manutenzione sono infinitamente più bassi rispetto agli stipendi dei lavoratori da impiegare per lo stesso livello di produttività. Risulta ovvio però che se la soluzione del capitalismo
rimane “maggior produttività al minor costo possibile”: il continuo abbassamento dei costi della manodopera comporterà la distruzione della classe media, nonché l’annullamento della sua forza d’acquisto: sacrificio richiesto per il piacere di poter produrre a poco, e non più al prezzo giusto.
Il secondo ordine di problemi relativo alla sostituzione dei lavoratori è prettamente etico, e fa riferimento al tema della deresponsabilizzazione. L’effetto più ecclatante del progresso tecnologico è l’emancipazione progressiva delle nostre azioni dai vincoli morali. Gli strumenti tecnologici non vengono più creati per raggiungere un particolare fine, bensì sono loro a stabilire, grazie alle possibilità che offrono, ciò che si può o si deve fare: a vincolare le nostre azioni c’è solamente il limite tecnologico che non siamo riusciti ancora ad oltrepassare. Nel momento in cui il principio che determina le scelte politiche, economiche e sociali non tiene più conto delle conseguenze etiche di una determinata
innovazione, si giunge al punto in cui non vi è più possibilità di applicazione della responsabilità morale agli effetti delle azioni umane. Gli effetti collaterali dannosi o indesiderati devono essere considerati alla luce dell’azione che li produce. Oggi invece, questo discorso sugli effettivi rischi delle tecnologie sembra essere sostituito dall’idea di “danno collaterale”; idea che suggerisce come effetti positivi e negativi non concorrano sullo stesso piano, anzi: le conseguenze negative prodotte dalla tecnica ma ignote fino a quel momento, sembrano accadere fatalmente e casualmente, senza consequenzialità tra l’applicazione e i suoi effetti.

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Occorre invece calcolare i rischi dell’innovazione tecnologica;
chiedersi che cosa possa pesare maggiormente per la società; e una volta trovata la risposta, scegliere se proseguire con quel tipo d’innovazione oppure arrestarla.
Il secondo fenomeno problematico di questa spinta innovatrice è la precarizzazione del lavoro; tendenza particolamermente riscontrabile in due punti.
In primo luogo, la New Economy produce sistemi di monetizzazione alternativi come il crowdsourcing – modello di business incentrato sulla collaborazione esterna di persone a progetti aziendali – e la sharing economy (“economia della condivisione”): concezioni economiche che all’apparenza possono risultare positive, rivoluzionarie e richiamanti modalità di condivisione eco-sostenibili; ma se contestualizzate e analizzate, rivelano tutta la loro portata precarizzante.

Le promesse della sharing economy si reggevano su basi solide: grazie all’ubiquità degli smartphone e alla diffusione di apposite applicazioni, era improvvisamente diventato possibile trasformare le città in una grande comunità. Una comunità in cui si condividono le auto usando i sistemi di car sharing; in cui una stanza libera nel proprio appartamento poteva essere messa a disposizione di chiunque; in cui si poteva mettere in condivisione anche il proprio tempo libero per guadagnare qualche soldo extra facendo lavoretti in casa dei vicini, portando i panni altrui in lavanderia, oppure consegnando i piatti dei ristoranti direttamente a domicilio.

Le città, e non solo, con l’avvento dell’età della condivisione avevano l’occasione di mettere in piedi una sorta di grande economia di vicinato basata sulla condivisione dei beni sottoutilizzati; con le sole differenze che tutto questo veniva organizzato tramite le app degli smartphone e che per i favori da vicino era richiesto un piccolo pagamento. Potevamo immaginarci tutti come dei supereroi della condivisione: a farci entrare in azione sarebbe stata una notifica. Ma è stato davvero così? A giudicare dalle ultime news che riguardano i principali portavoce dell’utopia dello sharing, la risposta sembrerebbe essere negativa.

Il sogno immaginato per primi dai fondatori della rivista Shareable, uno dei portabandiera della rivoluzione della condivisione, era quello appena descritto. Il risveglio, però, è stato di quelli bruschi: dalla condivisione di un auto (o anche solo di un posto libero) si è passati a Uber, in cui di condiviso c’è poco e gli autisti sono driver professionisti che svolgono un lavoro di fatto dipendente (ma senza godere di tutele lavorative). Allo stesso modo, le persone che ci consegnano le pizze sono rider di Deliveroo o Glovo che lavorano a tempo pieno, pagati a cottimo e che, se si fanno male cadendo dalla bicicletta, sono costretti a restare a casa senza guadagnare nulla (oltre a essere sottoposti a un ranking feroce, in cui un punteggio basso può causare l’estromissione dalla piattaforma).

Gli esempi che parlano di una tendenza radicalmente cambiata, o almeno del tutto malintesa, non mancano: l’idea di approfittare di un divano per offrire ospitalità a qualche turista si è trasformata nel colosso Airbnb in cui a farla da padrone è chi possiede diversi appartamenti e preferisce affittare per brevi periodi ai turisti (causando l’espulsione di chi già abitava in quelle case e provocando un aumento dei prezzi degli affitti).

Fonte: Wired.it

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Si tratta quindi di sistemi economici del tutto insufficienti a risolvere le problematiche causate dallo sviluppo tecnologico: non contribuiscono minimamente a ridistribuire le ricchezze e a limitare le disuguaglianze economiche prodotte dalla concezione di sviluppo a loro affine, perché non pagano neanche le tasse utili al welfare.
In secondo luogo, Internet introduce varianti strutturali nella società e nell’economia rispetto al passato. Una delle idee più eversive del web 2.0 è stata quella della gratuità: un certo numero di merci si può trovare online gratuitamente. I contenuti vengono offerti gratis perché i professionisti remunerati – come i programmatori, i musicisti o i giornalisti -vengono sostituiti con gli utenti, che condividono in maniera totalmente volontaria e gratuita i contenuti da loro creati. L’utente produce e l’utende consuma: nasce una nuova figura: il prosumer. L’unico a guadagnarci in questo schema però non è questo nuova soggetto, bensì chi gestisce la piattaforma.
Ma il motivo della gratuità delle merci online non è relativa solo alla sostituzione del professionista con l’utente. Google, Facebook e Instagram sono servizi completamente gratuiti soprattutto perché cediamo loro volontariamente una quantità di informazioni digitali incredibile: informazioni raccolte nei database aziendali con lo scopo di classificare categorie di consumatori diverse e di individuare così le tendenze di consumo, per mezzo delle quali si può determinare a quali fasce di persone e in quale momento un dato prodotto può essere venduto più facilmente. In questo modo, il prosumer non produce solamente contenuti, ma anche i dati utili a scoprire le tendenze: la necessità di creare domanda per un certo tipo di bene viene annullata addossando questo ruolo al consumatore, che diventa autonomamente il sorvegliante di se stesso.

La sostituzione dei lavoratori e la precarizzazione del lavoro sono i due fenomeni che comportano un’evidente crescita di disuguaglianza e disparità economico-sociale tra due “classi”: da una parte, l’élite proprietaria di robot o piattaforme informatiche; dall’altra la massa di lavoratori precari, utenti peraltro di quelle stesse piattaforme. Viste tutte le problematiche che scaturiscono dalla nuova concezione economica della New Economy e dallo sviluppo esponenziale della tecnologia, sono due gli ordini di domande che occorre porsi.
Il primo è relativo all’ambito politico: come affrontare queste disuguaglianze crescenti, frutto della New Economy e di un’innovazione tecnologica sempre in crescita e sempre più imprevedibile? Quali sono i modi per affrontare quest’epoca? In Tesi sulla filosofia della storia, Walter Benjamin delinea sostanzialmente due possibilità. La prima è negare che l’innovazione tecnologica sia progresso, rifiutandola come fecero i luddisti nel 1813, le cui battaglie certamente non comportarono l’arresto dello sviluppo, ma non furono in ogni caso vane: grazie alle loro lotte, il tema dei problemi derivati dall’automazione venne sdoganato e l’avvio di contrattazioni nei mercati di lavoro consentirono di migliorare le condizioni in fabbrica.
La seconda possibilità è accettare lo sviluppo tecnologico e piegarlo a proprio vantaggio. Nel libro La nuova rivoluzione delle macchine, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee elaborano delle misure politiche finalizzate a ridurre le disuguaglianze economiche:
migliorare le prospettive dei lavoratori alla luce di una crescita economica e produttiva complessiva. Le più importanti sono: il miglioramento dei metodi d’istruzione e d’insegnamento per mezzo delle nuove tecnologie; incentivare l’imprenditoria ed in particolare le start-up, ritenute vettori fondamentali per creare posti di lavoro e inventarne di nuovi; investire sulla ricerca scientifica e sulle infrastrutture, mettendo in moto una politica keynesiana; mettendo in pratica modalità di tassazione pigoviana, ovvero mirata a scoraggiare determinate attività come l’inquinamento, o sulla rendita – come la proprietà di terreni – la quale non subirebbe la riduzione dell’offerta sul mercato. Queste proposte politiche sono accompagnate da raccomandazioni a lungo termine, come l’idea di un’imposta negativa, che consiste nell’ottenere una frazione di tassazione pagata dal governo nel momento in cui il reddito risulta essere al di sotto di una determinata soglia.

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È evidente però che queste misure politiche non solo non tengono conto dei problemi ecologici conseguenti ad una continua crescita produttiva complessiva, ma non mirano a scalfire le fonti che producono la disuguaglianza. Innanzitutto, occorre adottare misure politiche in grado di redistribuire la ricchezza accumulata dalle grandi aziende e imprese della New Economy e prodotta attraverso i vantaggi della robotizzazione nel mondo del lavoro e dell’utilizzo di software in grado di eliminare certe mansioni di natura intellettuale.
Questi due processi non devono costituire un’ulteriore fonte di disuguaglianza; dovrebbero invece essere considerati patrimonio del bene comune, in quanto elementi che consentono all’umanità di liberarsi da una specifica tipologia di lavoro: quello alienante. È pertanto auspicabile adottare politiche di tassazione sui metodi di produzione automatizzati, sui sistemi informatici e algoritmici utilizzati dalle aziende e dalle imprese ed infine sugli enormi ricavi delle piattaforme online di servizi come Amazon, attraverso cui finanziare un reddito minimo garantito come misura politica emergenziale, in modo tale da contrastare nell’immediato la povertà dilagante prodotta da questo sviluppo economico e tecnologico.
Inoltre, questa misura politica permette di agire laddove si individua la prima fonte di disuguaglianza: il background familiare. Sopperire economicamente alle disuguaglianze tra nuclei familiari: lungi dall’essere una soluzione
definitiva, può essere però considerata certamente un passo in avanti, poiché offre la possibilità di arginare gli effetti dei meccanismi che producono la disuguaglianza e determinati dal contesto familiare in cui si nasce. Ricevere un’istruzione di migliore qualità; avere più tempo per ricercare un buon posto di lavoro che possa soddisfare le proprie aspirazioni, anziché accontentarsi del primo a causa delle difficoltà economiche; intraprendere più facilmente attività autonome e professionali: questi sono solo alcuni dei meccanismi determinati da un reddito familiare dignitoso. Il problema di un simile intervento è relativo all’impotenza degli Stati, i quali non sono in grado di agire fiscalmente perché le aziende e le imprese private non solo riescono ad aggirare la tassazione, ma sono anche in grado di minacciare i governi rispetto a determinate misure fiscali. Il potere dei grandi colossi economici riesce a soppiantare il potere politico attraverso il ricatto: possono legittimamente disattivare il funzionamento di servizi digitali, ormai diventati essenziali in questo sistema economico-sociale. Nel 2014 ad esempio, Google riesce a ricattare il governo spagnolo di Rajoy: l’approvazione della legge che avrebbe obbligato l’azienda a pagare gli editori per l’utilizzo dei loro contenuti evidentemente non piaceva. Così, il giorno prima dell’entrata in vigore, Google decide di disattivare il servizio News del suo motore di ricerca, con la perdita del 10-15% del traffico sulle pagine web delle testate giornalistiche. Occorre pertanto una politica internazionale coesa e mirata a limitare il potere economico dei grandi colossi della New Economy in vista di una redistribuzione delle ricchezze. Si prefigura in questo modo “un nuovo episodio di quella che i democratici americani non esitano a definire la strong battle tra pubblico e privato”.

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