Cittadini dell’ Isola che non c’è

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Essere cittadini europei


Aimon

Significato della cittadinanza Europea

La cittadinanza europea festeggia il suo 27° anniversario ma, ancora oggi, come emerso da varie indagini condotte negli Stati membri, molti cittadini non si sentono pienamente “europei”. La situazione varia da Paese a Paese, passando da un solo il 42% della Gran Bretagna ad un 85% nel Lussemburgo.

Queste differenze sono determinate da vari fattori. La maggioranza dei cittadini dell’UE  non si sente adeguatamente informata sui propri diritti (68%), questo è anche il caso  dell’Italia, dove il 67% dei cittadini si considera non sufficientemente informato”.
L’Unione europea è quindi un’unione de iure, ma non è ancora un’unione de facto. Non è sufficiente emanare norme se di queste non si registra una piena consapevolezza presso tutti i cittadini europei. Tutti, all’interno dell’Unione europea sono perfettamente consci di essere, ad esempio, cittadini italiani o francesi o tedeschi o rumeni, ma nessuno, o quasi nessuno, sa di possedere anche la cittadinanza europea. Negli stessi documenti d’identità destinati ai cittadini degli Stati membri dell’Unione non vi è traccia della dicitura “cittadinanza europea” a dispetto della cittadinanza nazionale che viene sempre indicata, come nel caso della “cittadinanza italiana”. Viene da chiedersi allora quale sia il reale valore di una cittadinanza che, proprio nei confronti dei cittadini a cui è destinata, risulta essere un’illustre sconosciuta, una “terra ignota” agli occhi dei suoi stessi abitanti.
Se la cittadinanza europea fosse stata inserita nell’ “ordinamento” comunitario solo pochi mesi fa, questa mancata visibilità potrebbe essere giustificata ma oggi tale excusatio non è proponibile né tantomeno accettabile, dal momento che la cittadinanza europea fa la sua comparsa nel panorama normativo europeo sin dal Trattato di Maastricht del 1992.


La “cittadinanza dell’unione” (o più semplicemente, come si usa nel linguaggio corrente, la “cittadinanza europea”), originariamente introdotta dall’art. 8 del Trattato di Maastricht, è oggi sancita, a seguito delle successive riforme e rinumerazioni, dall’art.9 TuE e dall’art. 20 TFuE. Si tratta di uno status che l’unione europea riserva alle sole persone fisiche, con l’esclusione delle persone giuridiche. Questo probabilmente per il valore intrinsecamente politico che la cittadinanza europea riveste, come “momento di legittimazione democratica” dell’ordinamento dell’unione. L’introduzione della cittadinanza europea ha segnato, infatti, il tramonto dell’impostazione dell’originario progetto di costruzione europea confinato in ambito prevalentemente economico, e avviato un percorso in cui l’individuo, non più visto solo come un fattore produttivo ma nella pienezza della sua persona, viene messo al centro di un ben più complesso e ambizioso disegno di natura politica.
Tuttavia, per lungo tempo, proprio il contenuto dell’istituto, e in particolare, la debolezza– per alcuni, addirittura inconsistenza – dei diritti garantiti (soprattutto se messi in rapporto alle ambizioni sottese al ricorso alla nozione di cittadinanza) hanno fatto parlare della cittadinanza dell’unione come di un mero simbolo privo in realtà di riflessi sostanziali rilevanti. Ciò nonostante, partendo da un dato normativo apparentemente poco significativo, la nozione ha poi conosciuto, grazie soprattutto all’intervento della Corte di giustizia dell’unione europea, un progressivo arricchimento del suo contenuto concreto . Secondo la giurisprudenza ormai consolidata della Corte di giustizia, lo status di cittadino dell’unione “è destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri”, affermazione questa che esprime in maniera emblematica il carattere evolutivo dell’istituto, al tempo stesso “prodotto” e “fattore propulsivo” del processo di costruzione europea. Del resto, la cittadinanza europea nasce in partenza come un concetto dinamico. Ne è prova la clausola evolutiva o di completamento, la quale, nella formulazione attuale ex art. 25 TFuE, stabilisce che i diritti di cittadinanza possono essere ampliati sulla base di una delibera adottata all’unanimità dal Consiglio dell’unione secondo una procedura legislativa speciale che prevede l’approvazione del Parlamento europeo, e la cui entrata in vigore richiede l’approvazione di tutti gli Stati membri conformemente alle rispettive discipline costituzionali.
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Il contenuto della cittadinanza è disciplinato più nel dettaglio nel TFuE, la cui parte seconda è intitolata “non discriminazione e cittadinanza dell’unione”. Il riferimento al principio di non discriminazione appare in questo contesto particolarmente opportuno e significativo. La cittadinanza europea, infatti, pur essendo stata introdotta formalmente, come si è detto, solo nel 1992, affonda le sue radici nell’affermazione, sin dalle origini del processo di integrazione, del principio di non discriminazione a motivo della nazionalità, che di fatto aveva già progressivamente condotto in larga misura all’equiparazione di trattamento tra i cittadini degli Stati membri nelle materie oggetto di disciplina da parte del diritto comunitario.
Proprio grazie alla valorizzazione di questo principio, inoltre, alcuni dei diritti che avrebbero poi costituito il contenuto stesso della nozione di cittadinanza europea erano stati, ancor prima della riforma di Maastricht, riconosciuti ai cittadini degli Stati membri: si pensi alle libertà economiche di circolazione, che, nonostante l’originaria connotazione mercantilistica, erano state estese ben al di là della loro dimensione originaria, grazie soprattutto ad un approccio evolutivo adottato dalla Corte di giustizia nell’interpretazione delle norme rilevanti (poi recepito dal diritto derivato), volto a emancipare l’applicabilità delle medesime dall’esercizio di attività economiche. Lo stesso dicasi per i diritti “minori” dei cittadini europei, che sono anch’essi il frutto di un’evoluzione già precedentemente iniziata, a conferma della “matrice graduale e progressiva della cittadinanza europea”. In questo senso, è stato osservato, la cittadinanza europea avrebbe costituito “non tanto [un] fattore di radicale innovazione, quanto [un] elemento di accelerazione di processi già avviati”.

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Diritti riconosciuti al Cittadino dell’UE

I diritti ad essa connessi non arricchiscono il patrimonio giuridico soggettivo all’interno dell’ordinamento nazionale ma:

Entro l’ordinamento di altri Stati membri UE:

  • Libertà di circolazione e di soggiorno di ogni cittadino europeo nel territorio di uno Stato membro (art. 21 TFUE).
  • Diritto di voto attivo e passivo nelle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede, alla pari dei cittadini di tale Stato (art. 22 TFUE), e nelle elezioni europee.
  • Diritto di petizione davanti al Parlamento Europeo

Entro l’ordinamento internazionale:

  • Tutela diplomatica e consolare nei paesi extra-europei nei quali il suo Stato non è rappresentato da parte delle autorità degli altri Stati membri (art. 23 TFUE).

Entro la sfera dell’ordinamento comunitario:

  • Diritto di petizione al Parlamento europeo (art. 24 c. 2 TFUE).
  • Diritto di rivolgersi al mediatore europeo (art. 24 c. 3 TFUE).
  • Diritto di scrivere alle istituzioni e ad alcuni organi comunitari in una delle lingue ufficiali della stessa e di ricevere risposta nella stessa lingua (art. 24 c. 4 TFUE).
  • Gli Stati membri dell’Unione europea usano anche un passaporto comune, di color rosso bordeaux con impresso il nome dello Stato membro, il timbro ed il titolo “Unione europea” debitamente tradotto.

 

Tuttavia, per la cittadinanza europea non possiamo sostenere che si tratta di un elemento di “chiara fama”, non sono difatti bastati i trattati di Maastricht, Amsterdam, Nizza e, più recentemente, quello di Lisbona a divulgare tra i cittadini degli Stati membri questo loro diritto.
Ideare, redigere ed approvare trattati non è sufficiente se viene meno, tra i cittadini, la percezione degli ideali e dei diritti che vengono attribuiti. Non è, pertanto, ammissibile che “messaggi” di tale importanza restino confinati, per oltre vent’anni, alla ristretta cerchia di burocrati, tecnocrati ed esperti giuristi di diritto europeo, mentre dovrebbero raggiungere la conoscenza e la coscienza di tutte le classi sociali, trasformandosi, sul piano della comunicazione, da elementi oligarchici in elementi democratici. Ancor più grave risulta essere tale mancanza se si pensa che ormai, da decenni, viviamo nell’era della comunicazione digitale, dove le informazioni viaggiano da un emisfero all’altro del pianeta in un sol battito d’ali.
La cittadinanza europea è, invece, una testimonianza della distanza che ancora separa il  Palazzo, che deve legiferare, dai cittadini, che devono recepire, un “muro” che divide gli organismi europei dal loro stesso popolo.
Bruxelles, Strasburgo, Lussemburgo: Palazzi nati di “vetro” e trasformati nel tempo in roccaforti di una classe elitaria, troppo spesso lontana dalla realtà in cui vivono i cittadini che rappresentano.
Non è, però, solo ed esclusivamente una questione di comunicazione e, in ogni caso, le cause non possono essere addebitate ai soli organismi europei, ma la responsabilità va attribuita anche agli Stati membri che sembrano non gradire la “divulgazione” di politiche comunitarie che minaccino ulteriormente le sovranità nazionali.
Al di là di ciò, così per come è stata pensata, la cittadinanza europea resterebbe “indifferente” ai suoi destinatari anche qualora questi ne prendessero pienamente coscienza.
Allo stato attuale, difatti, la cittadinanza europea non incide nel vissuto quotidiano, a differenza delle varie cittadinanze nazionali.
Secondo l’art. 9  del Trattato sull’Unione europea, “la cittadinanza dell’Unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale”; secondo quanto stabilisce l’art. 10, n.2, “i cittadini sono direttamente rappresentati, a livello dell’Unione, nel Parlamento europeo” e, “i partiti politici a livello europeo contribuiscono a formare una coscienza politica europea ed a esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione” (art. 10, n. 2).  L’Unione ha dunque proceduto sul piano formale ad una rigorosa mutazione della grammatica e dello strumento del costituzionalismo moderno: la cittadinanza, la rappresentanza parlamentare, i partiti. Ma nell’atto stesso del recepimento di tali istanze non ha esitato a distorcerne immediatamente il significato, mitigandone la portata e il principio ispiratore. Lo scenario politico-istituzionale con il quale siamo chiamati ancora oggi a misurarci ne è la più evidente dimostrazione: la cittadinanza europea ridotta a “satellite” di quella nazionale.

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Conclusione

Nel tentativo di delineare alcune considerazioni di carattere conclusivo, va sottolineato  che aver introdotto la cittadinanza europea è da considerare, quanto meno sotto il profilo simbolico, un passo avanti sul piano dell’integrazione. Tuttavia, occorre tener presente che tale status, essendo, come già sottolineato, aggiuntivo e non sostitutivo rispetto alle forme di cittadinanza in vigore a livello nazionale tra gli Stati membri, manifesta i limiti di cui si è detto.
Limiti che inducono a riflettere sulla possibilità di individuare un nuovo concetto di cittadinanza europea non più legata alla cittadinanza nazionale. In questo senso va anche il rapporto, elaborato dal deputato europeo Alain Lamassoure e destinato all’allora Presidente Sarkozy, sull’Europa dei cittadini quando l’Autore chiede di aprire un dibattito su una nuova nozione di cittadinanza europea e propone di elaborare una lista comune dei diritti legati alla residenza e dei diritti legati alla persona.
Tuttavia, l’ostacolo più importante ad un effettivo e concreto recepimento della  cittadinanza europea, resta la mancata “unità” dell’Unione, ancora estremamente vincolata a  fattori di incompletezza e settorialità. I trattati hanno fatto si che gli Europei diventassero “cittadini dell’Unione” ma non sono riusciti nel più arduo compito di renderli “cittadini uniti”.
L’Europa unita deve, pertanto, essere il risultato non soltanto dei trattati, ma anche della partecipazione del sentimento popolare: l’azione dei governi e della diplomazia deve essere sorretta dalla volontà collettiva dei popoli; da una coscienza europea. E perché una coscienza europea si sviluppi è inevitabile la partecipazione ed è essenziale che i popoli siano attori protagonisti e non attori muti costretti a sottostare alle decisioni prese dai vertici comunitari. Nessuna costruzione politica, per prodigiosa che possa essere, è capace di durare a lungo quando non è sorretta dalla volontà o dal sentimento degli uomini.
Si sente spesso parlare di coscienza europea ma bisogna realisticamente tener conto che  la maggior parte dei cittadini europei non conosce neanche quali sono i Paesi che compongono l’Unione, anche in questo caso, quindi, si registra un difetto di comunicazione dovuto all’assenza di un vero piano informativo-divulgativo.
È, quindi, d’obbligo la constatazione che oggi la coscienza comunitaria europea è debole, debolissima. Anzi, non è solo debole e nettamente inferiore alla consolidata coscienza nazionale delle singole parti costituenti l’Europa, ma non appare neppure chiara nelle sue prospettive. Quale sarà il cemento etico-politico dell’Europa o cosa sarà una l’Europa comunitaria? Sarà una nazione europea o sarà una realtà sorretta da valori diversi da quelli del principio nazionale? Nessuno di noi è preparato, al momento, per rispondere a questi interrogativi.
Del resto, guardando al processo dell’integrazione europea, noteremo che, con il progredire di tale processo, la coscienza comunitaria, il senso di una comunità di valori e la percezione dell’Europa come dimensione etico-politica hanno dato l’impressione di essersi andati via via indebolendo piuttosto che rafforzarsi. La partecipazione democratica è, a tutt’oggi, la questione centrale, la chiave di  volta nella costruzione dell’unità europea. Dopo oltre mezzo secolo di “cammino comunitario”, l’UE fatica ancora a coinvolgere nella propria organizzazione il cittadino, manifestando un serio deficit democratico.
Le sue istituzioni politiche, infatti, sono sorte per rispondere ai processi di unificazione economica e non sono state mai progettate armonicamente per assicurare l’equilibrio dei poteri e la sovranità popolare. Prova ne sia che il Parlamento europeo, eletto a suffragio  universale, che esercita funzioni del tutto marginali rispetto a quelli esercitati dalla Commissione e dal Consiglio.

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L’Unione europea, sotto un aspetto globale, rappresenta, perciò, un “atto dovuto” ma dovrà essere, anche e soprattutto, un “atto gradito” dalla comunità dei cittadini.
Solo in questo caso la cittadinanza europea non sarà una cittadinanza imposta o proposta dall’alto, ma il comune sentire dell’anima degli Europei.

 

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