La trascendenza della plastica

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La trascendenza della plastica


Non esistono problemi che non possano essere risolti attorno ad un tavolo, purché ci sia volontà buona e fiducia reciproca; o anche paura reciproca.

Primo Levi I sommersi e i salvati

 

Chi conosce Se questo è un uomo sa che, al tempo della sua deportazione ad Auschwitz, Primo Levi era un chimico. Questa sua formazione, che gli rendeva familiari “i tempestosi mescolamenti culturali e materiali” degli elementi, non solo lo aiutò a sopravvivere nel lager di Monowitz ma, combinata con la sua storia personale, gli consentì anche di scorgere in questi “mescolamenti” derive difficili da prevedere fino a pochi anni fa. In una pagina del Sistema periodico, per esempio, troviamo un passo che oggi suona premonitore, e quasi non ce lo aspetteremmo in un racconto dedicato al cerio, un metallo argentato abbastanza comune che, in lega col ferro, si usa per le pietrine degli accendini.


“Sotto l’aspetto […] delle sostanze che si potessero rubare con profitto, quel laboratorio era […] tutto da esplorare.
C’erano benzina e alcool, prede banali e scomode: molti li rubavano, in vari punti del cantiere, l’offerta era alta ed alto era anche il rischio, perché per i liquidi ci vogliono recipienti. È il grande problema dell’imballaggio, che ogni chimico esperto conosce: e lo conosceva bene il Padre Eterno, che lo ha risolto brillantemente, da par suo, con le membrane cellulari, il guscio delle uova, la buccia degli aranci, e la nostra pelle, perché liquidi infine siamo anche noi. Ora, a quel tempo non esisteva il polietilene, che mi avrebbe fatto comodo perché è flessibile, leggero e splendidamente impermeabile: ma è anche un po’ troppo incorruttibile, e non per niente il Padre Eterno medesimo, che pure è maestro in polimerizzazioni, si è astenuto dal brevettarlo: a Lui le cose incorruttibili non piacciono..”

Pubblicato nel 1975, Il sistema periodico è un libro straordinario per molti aspetti. In esso Levi riesce a far parlare (e agire) insieme gli elementi e gli eventi, utilizzando le leggi (e le avventure) della chimica per decifrare un periodo buio della nostra storia: quello del Fascismo e della Seconda Guerra Mondiale, con le leggi razziali prima e la deportazione degli Ebrei poi. Ciò che colpisce nel passo tratto da questo racconto è il contrasto ironico (ma non troppo) tra il modo in cui gli esseri umani manipolano gli elementi chimici, creando composti sempre nuovi di cui spesso ignorano gli effetti collaterali, e il modo in cui lo fa Dio, che invece ha tradizionalmente una vista un po’ più lunga. Nella sua apparente leggerezza, l’immagine del “Padre Eterno” come un “maestro di polimerizzazioni” che si astiene dal brevettare il polietilene perché non gli piacciono “le cose incorruttibili” è infatti molto eloquente.
Possiamo figurarci Dio come un chimico che osserva tutte le sostanze potenziali al microscopio, allo stesso tempo contemplandone gli effetti nel vasto, macroscopico orizzonte della creazione.
Provvido per definizione, però, questo “maestro di polimerizzazioni” non si astiene dal creare il polietilene, ma semplicemente dal “brevettarlo”: si guarda, cioè, dal concedere a questa sostanza la ‘patente’ delle cose degne di rientrare nel novero della creazione. In qualche modo, Levi ci suggerisce, Dio lascia che a farlo siano gli umani, esattamente come lascia che facciano tutto il resto, dotati come sono di libertà, e quindi chiamati alla responsabilità del loro agire.


Il passo di Levi offre la possibilità di riflettere su alcune tematiche molto attuali alla luce delle emergenze ecologiche a cui sono sottoposte la nostra vita e quella del pianeta. E ancora, l’idea etica della libertà e quindi della responsabilità che, di fronte a queste emergenze, si assumono coloro che decidono di ‘brevettare’ non solo sostanze come il polietilene ma anche comportamenti che lasciano dietro di sé residui “un po’ troppo incorruttibili”.

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Questione di  trascendenza.

Lo sguardo del Dio di Levi è trascendente nel senso più letterale del termine: nel considerare nuovi elementi, infatti, Dio vede la realtà oltre le singolarità degli eventi e delle sostanze individuali, sorpassando (ovvero, ‘trans-scendendo’) la prospettiva dell’hic et nunc e obliterando la finitudine della creazione e dell’umano. Ma, a pensarci bene, anche quello dell’ecologia è uno sguardo ‘trascendente’. Come disciplina scientifica, certo, l’ecologia presuppone un pensiero laico, non religioso. Eppure a me pare che anche la prospettiva ecologica implichi un’idea di trascendenza, anche se si tratta di un’idea differente, più fisica e materiale: una trascendenza legata alla dimensione limitata ma interdipendente dell’esistenza vivente e a come la rete delle interconnessioni ecologiche ci porti a considerare l’idea stessa di ulteriorità. È per tale motivo che ho definito quello della trascendenza un tema fisico-teologico: se nel discorso teologico la trascendenza è un superamento nel divino della dimensione finita della creazione, nel discorso ecologico questo superamento avviene nella complessità delle inter-relazioni del mondo fisico, in cui nessun elemento singolo è autonomo e fine a se stesso. La cifra del mondo naturale è, cioè, la “profonda dipendenza dell’esistenza finita di ciascuno rispetto all’infinito divenire dell’universo”; in questo, la singolarità degli individui è trascesa nella relazione reciproca e nella co-emergenza della realtà vivente. Di fronte a queste considerazioni, si pongono per l’etica alcune domande.
Innanzitutto:  In che modo questa trascendenza ci spinge a pensare le categorie di responsabilità e di cura per l’altro? E che cosa – dove, come e quando – è questo altro?
Il discorso è quanto mai attuale: nel maggio 2015, infatti, è uscita l’Enciclica Papale che ci richiama alla responsabilità nei confronti della vita naturale e dell’ambiente e lo fa in nome di un’“ecologia integrale”, ossia un’ecologia non solo fatta di inquinamento o esaurimento delle risorse naturali, ma che riveli anche i costi – sociali, politici, culturali, etici – che questi processi comportano.

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Il messaggio di Levi era inequivocabile: il polietilene è incorruttibile. Ma che cos’è oggi e soprattutto dov’è questo elemento incorruttibile? In realtà, anche se non sempre ci facciamo caso, lo ritroviamo in molti luoghi, tutti vicinissimi a noi. È nella tastiera del mio computer mentre scrivo queste pagine e nei cavi elettrici che lo fanno funzionare; ed è nella suola delle scarpe, nella montatura degli occhiali o nei vestiti di chi un giorno eventualmente lo leggerà. Se questo però ci sembra ‘naturale’, meno ‘naturale’ è invece trovarlo nei nostri mari: l’inquinamento da PVC è infatti uno dei più gravi e dannosi tra quelli che affliggono gli ecosistemi del pianeta. Lo vediamo nelle acque oceaniche, dove forma addirittura piccoli ammassi continentali: uno è il famigerato Great Pacific Plastic Patch, un’area di rifiuti, per lo più composta di plastica, grande il doppio del Texas e situata all’interno del Pacific Gyre, un vortice di correnti oceaniche del Pacifico del nord. E lo vediamo, tristemente, nello stomaco di uccelli, pesci o mammiferi marini che lo scambiano per cibo e lo mangiano. Come spesso capita, l’arte è uno strumento potente per dare voce alle catastrofi, specie se altrimenti poco visibili. Il fotografo americano Chris Jordan, per esempio, si è dedicato a questa emergenza zoo-ecologica in Midway, un work-in-progress cominciato nel 2009 in cui è documentata l’agonia degli uccelli marini che, confondendo pezzi di plastica con piccoli pesci, li ingeriscono o li usano per nutrire i pulcini. Nell’atollo Midway, un tempo santuario della fauna oceanica, Jordan ha fotografato i resti di centinaia di piccoli albatri: viste da lontano, queste composizioni formate da ammassi di piume, ossa e oggetti di plastica dai colori sbiaditi possono sembrare opere d’arte postmoderne, ma in realtà non sono altro che residui della società dei consumi incorniciati dallo scheletro di esseri (un tempo) viventi. Se quindi accettiamo di vedere questi fenomeni e questa tossicità, troppo spesso rimossi dalla coscienza e dall’immaginario collettivo, si fa presto a capire che cosa succeda al PVC quando non è più utilizzabile per i nostri scopi: rimane lì in un incombente “stato di sospensione”, seguendo le leggi della sua lenta e incontrastata metamorfosi marina. È così che, sotto forma di oggetti familiari come contenitori o bottiglie, o di frammenti indistinti di particolato, la plastica galleggia negli oceani per anni a venire, divenendo a tutti gli effetti parte problematica dell’ecologia marina. L’incorruttibilità del polietilene, infatti, non è un’incorruttibilità di ‘forma’ ma di ‘sostanza’. Gli oggetti si dissolvono, ma le molecole che li compongono persistono. È stato addirittura calcolato che, per ogni particella di plancton, negli oceani ve ne siano sei di composti plastici derivati dalpetrolio. Se diamo retta a Barry Commoner, secondo cui la prima legge dell’ecologia è l’interconnessione dei fenomeni, di qui a tutto il resto il passo è breve: il destino di queste molecole e quello degli esseri viventi si mescola, l’hic et nunc e la specificità degli individui si ‘trascendono’, e il PVC risale lentamente, lungo la catena alimentare, fino a ricongiungersi col suo ‘creatore’, ossia noi esseri umani. Ci troviamo quindi in un “tecno-paesaggio” che trascende sé stesso, e si tratta di una trascendenza capovolta : non è il ‘creatore’ che trascende la sua ‘creatura’ ma viceversa, con la differenza che l’eternità di questi composti chimici più che un dogma, è un fatto. Di fronte a questo fatto, “l’idea persistente (e conveniente) di un oceano tanto vasto e potente [da farci ritenere] che ogni cosa vi si getti dentro sarà dispersa nell’oblio rende particolarmente difficile catturare, mappare e diffondere il flusso di tossine che scorre attraverso gli habitat terrestri, oceanici e umani”. Il polietilene, e in genere quelli che si
chiamano P.O.P., persisting organic pollutants, sono alcune tra le cose che, per quanto “disperse nell’oblio”, continueranno a scorrere per i sentieri di questi habitat, muovendosi circolarmente dall’inorganico all’organico, dall’ambiente ai nostri corpi.

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La vulnerabilità della natura, ormai evidente con l’affermazione del dominio umano sull’ambiente e con lo sviluppo della tecnica, impone all’etica un vero e proprio sforzo di trascendenza. Questo sforzo consiste nel trascendere lo scenario temporale della nostra azione. L’etica della responsabilità per definizione non riguarda solo il presente, ma deve essere anche, a tutti gli effetti, un’“etica del futuro”. L’impegno di salvaguardare la natura per il bene dei posteri si presenta allora come un dovere reale, immediato e concreto. Nella prospettiva della responsabilità, il futuro del genere umano e quello della natura si uniscono in un orizzonte comune, e i doveri verso l’umanità e quelli verso l’ambiente devono essere trattati come se fossero uno solo. La base di tutto questo non è tanto un ‘atto di fede’ nel futuro, ma un agire in grado di consentire che, tout court, ci sia un futuro.


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