Fra rabbia ed amore il distacco già cresce…e chi sarà il campione già si capisce…

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Bartali


Il bene si fa ma non si dice.

E certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca.

Gino Bartali

Oltre alle corse, un Tour de France o un Giro d’Italia vinti con la forza e l’astuzia, di Gino Bartali amo ricordare lo straordinario impegno che profuse nel salvare tante vite umane dalla barbarie nazista.
L’immagine di Gino nel ruolo di postino delle fotografie per stampare carte di identità false, espediente burocratico indispensabile per evitare a tanti ebrei la deportazione, è l’immagine stessa della libertà e della giustizia.
Libertà e giustizia che correvano in bicicletta, spinte da un campione di umanità.
Gli allori, i trionfi e le medaglie sono destinati ad ingiallire, ad arrugginire, trovando spazio negli almanacchi o nelle teche; la dedizione verso il prossimo e soprattutto verso l’ideale supremo della vita umana, è qualcosa che investe la
Storia.
So che Bartali non avrebbe amato simili attestazioni di grandezza, nella sua umiltà e rudezza avrebbe anzi teso a sminuirne la portata.
I grandi uomini, così come i grandi campioni – e lo sport in questo contesto è certamente una metafora dell’esistenza umana – non agiscono per calcolo o in prospettiva di un riconoscimento pubblico; lo fanno perché sentono che così si deve agire, perché conoscono il sacrificio che li ha portati lontano, perché riescono a mettere il loro talento al servizio di chi è nella condizione di bisogno.
Molti ebrei perirono dopo immani sofferenze e umiliazioni, lontani dai loro cari e dalle loro radici. Ma in molti furono risparmiati grazie al coraggio di chi, come Bartali, Giorgio Nissim, il Cardinale Elia dalla Costa e tanti altri Giusti (mai ricordati e celebrati a sufficienza), mise a rischio la propria vita per salvarne altre.
E’ necessario, ora più che mai, dare a queste azioni il valore che meritano.
A collocarle nella Storia con pari dignità rispetto a chi è stato immortalato con clamore nei libri e nei film.

Allo scoppio della guerra, nei paesi invasi dalle armate naziste, le leggi razziali  erano severamente e ferocemente applicate. In Italia tuttavia, la Chiesa e le strutture ad essa collegate trovarono la maniera di aiutare tanti perseguitati, grazie ad organizzazioni clandestine di soccorso, come quella alla quale collaborò Bartali, pedalando per tante centinaia di chilometri al giorno, al fine di consegnare i documenti necessari all’espatrio dei perseguitati.
La DELASEM, l’organizzazione di aiuto agli ebrei, con l’appoggio di una struttura clandestina guidata dall’allora cardinale di Firenze, Elia Dalla Costa, li faceva imbarcare a Genova per le Americhe, oppure li aiutava a cambiare temporaneamente identità, per sfuggire alle retate. L’operazione era complessa e implicava la collaborazione di numerose persone e la falsificazione di molti documenti. Il Cardinale, che aveva unito in matrimonio lo stesso Bartali, ritenne che  fosse la persona più adatta per procurare tali documenti, nel più assoluto segreto. Infatti i suoi movimenti non destavano sospetti, essendo all’epoca vincitore già di due Giri d’Italia e del Tour de France che lo rese famoso in Europa. Così mise al servizio della salvezza dei perseguitati la sua prestanza atletica, incurante dei rischi che l’impresa comportava. Non ne parlò mai con nessuno, se non molti anni dopo la fine della guerra, ma sempre con circospezione.


La Shoah ha rappresentato un evento unico in tutta la storia dell’umanità, un evento spartiacque tra il prima e il dopo, un evento che ha fatto vacillare gli stessi fondamenti della civiltà. Esso ha rappresentato la mostruosità cui può giungere l’uso aberrante del potere, limitato solo dal personale senso di responsabilità del salvatore e delle organizzazioni religiose umanitarie, dirette a Firenze dal cardinale Elia Dalla Costa che, con l’aiuto di Gino Bartali, tenne le fila della regia nell’operazione di salvataggio di 800 ebrei, grazie a documenti falsi e somme di danaro trasportate sulla bicicletta dal Campione, tra Firenze e Lucca, tra Firenze e Assisi, tra Firenze e Genova. Riflettere sulla Shoah significa riflettere sul potenziale di genocidio contemporaneo che in alcuni casi si è già di nuovo verificato, come nei conflitti etnici in Rwanda del 1963 (e anche del 1994), indicati da Bertrand Russell come “i massacri più atroci cui siamo venuti a conoscenza dai tempi dello sterminio degli Ebrei”.
Insegnare la Shoah risponde al dovere storico della narrazione della persecuzione, subita individualmente o da intere famiglie e dalle Comunità.
La Shoah rappresenta una tessera significativa nel mosaico di avvenimenti degli anni Trenta-Quaranta del Novecento, non solo negli anni della II Guerra Mondiale, anche se è vero che nel corso degli eventi bellici esplosero le premesse terrificanti già prima annunciate, senza che vi fossero state reazioni di contrasto alla violenza e alla barbarie, in difesa dei valori della democrazia. All’interno della “narrazione” complessiva, l’affacciarsi nella storia, prima timido, poi sempre più deciso, della drammatica vicenda individuale dei singoli perseguitati nell’attuazione del genocidio, dà corpo e sostanza allo scenario della persecuzione razziale e della costruzione “scientifica” delle fabbriche della morte, con i suoi effetti letali su milioni di vite umane.
Ma non è stato facile avere i racconti dei superstiti.
“Volevamo sopravvivere anche e soprattutto per raccontare ciò che avevamo visto: questo era un discorso comune, nei pochi momenti di tregua che ci erano concessi. Del resto è un desiderio umano: lei non troverà mai un reduce che non racconti. (No, mi correggo, ve ne sono alcuni che non raccontano; ve ne sono alcuni che sono stati feriti talmente a fondo che hanno censurato il loro passato, l’hanno sepolto per non sentirselo più addosso)”.
Così si esprimeva Primo Levi in un’ intervista del 1978.
La Shoah infatti non fu solo camere a gas, ma anche l’abiezione della vita nel ghetto, iniziata ancor prima, nel 1940. Nel Ghetto di Varsavia la razione calorica giornaliera era di 180 calorie al giorno; i medici del ghetto non avevano medicine sufficienti per tutti: furono perciò obbligati a scegliere chi aiutare a sopravvivere e chi condannare, negando ad alcuni i pochi medicinali disponibili. Scelte dolorose che lasciarono il segno sulle coscienze anche dopo la liberazione e condusse non pochi a gesti estremi. Si è visto, col tempo e col progredire delle ricerche dei sopravvissuti, che sono tanti quelli che nascondono a se stessi la propria esperienza e tacciono per rimuovere il dolore, o quantomeno per non rinnovarlo.
Invece la testimonianza del salvato è fondamentale per se stesso al fine del superamento del suo trauma, ma anche per il riconoscimento del salvatore: così ancora una volta, come in tempo di guerra, i loro destini s’ incrociano e la vicenda dell’uno non riesce a vivere senza quella dell’altro! Ecco un altro motivo del costruire la memoria: rendere giustizia ai Giusti e cogliere la preziosa testimonianza dei perseguitati, trasferirle ai posteri, raccogliere elementi di conoscenza per la formazione della coscienza storica condivisa, alla quale è indispensabile la ricostruzione della Memoria del Bene, che è quella dei Giusti.
Eppure non è stato facile trovare il salvatore. Non è stato facile parimenti far emergere il salvato e raccoglierne la testimonianza.
Nell’ambito delle vicende individuali vissute nelle tante città e contrade italiane dove 27.000 ebrei, sui 35.000 allora residenti in Italia, furono salvati, s’indovina la figura del salvatore, anzi dei salvatori, dei quali solo poche centinaia sono stati riconosciuti. Ma i salvati sono stati tante migliaia!
Appare quasi incredibile, a tanti decenni di distanza dai rastrellamenti, dalle deportazioni e dalle fucilazioni inflitte a chi contravveniva alle leggi razziali, che vi siano state persone che hanno rischiato la propria vita, quella dei familiari, i loro beni, per salvare anche un solo ebreo.
Appare incredibile che una donna, Irena Sendler, dal Ghetto di Varsavia, utilizzando l’ambulanza medica e servendosi di un cane che abbaiando copriva il pianto dei bambini che trasportava, abbia potuto far uscire e salvare 2.500 di loro!
Appare incredibile e superiore alle forze umane che uno Schindler smetta di essere uno spettatore e diventi un salvatore, quando scopre l’umanità delle vittime e fa la scelta di campo contro il persecutore. Nell’omonimo film, Schindler’s List, questa trasformazione viene resa nella scena in cui Schindler vede dall’alto una retata e distingue, nella folla incolore, una bambina vestita di rosso, cioè vede per la prima volta l’individuo, il non divisibile, non un numero nella massa grigia e informe, la cui sorte può lasciare indifferente.
Appare incredibile, quasi insensato, che un uomo del popolo, eroe dello sport, al colmo di un successo strepitoso, smetta di essere solo il campione del ciclismo che ha già vinto il Tour de France nel 1938 e il Giro d’Italia del 1936 e del 1937 e decida di utilizzare il mezzo delle sue vittorie, la bicicletta, e più ancora, la sua stessa vita per mettersi al servizio del Bene, per il salvataggio di 800 ebrei.

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La scelta di Bartali  è stata generosa, altruistica, tanto più in quanto minoritaria e difficile, fatta in un contesto ambiguo e insidioso nel quale poteva succedere di tutto rapidamente: dalla delazione alla fucilazione. Il Giusto affronta il rischio, Bartali l’ha “corso” in tutti i sensi, per anni.
E’ un evento che merita di emergere dal silenzio, se c’è chi lo racconta per tramandarlo. Non per qualche presunzione, ma per divulgare il significato di quell’evento, di quella scelta che appare insensata, come la follia dei santi, perché è contro di sé e contro i propri interessi più cogenti: “ e sé non giova”, appunto. Insomma per far emergere le emozioni vere che possano essere emulate, che possano permettere di prendere il testimone. Cioè per educare.

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