Siete rimasti senza scuse e noi siamo rimasti senza più tempo

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GRETA THUNBERG


“Siete rimasti senza scuse e noi siamo rimasti senza più tempo.”
GRETA THUNBERG

Greta Tintin Eleonora Ernman Thunberg, al secolo semplicemente Greta, non ha bisogno di molte presentazioni. La sedicenne svedese infatti è diventata uno dei volti più noti della campagna per lo sviluppo sostenibile e contro il cambiamento climatico. La sua comunicazione, iniziata tenendo ogni venerdì manifestazioni regolari davanti al Riksdag a Stoccolma con lo slogan Skolstrejk för klimatet («sciopero scolastico per il clima»), è col passare del tempo diventata irresistibile, portandola ad incontrare tutti i big della terra, compreso il Papa, a guidare grandi manifestazioni di piazza in tutta Europa e a pubblicare il best seller scritto con la sua famiglia “La nostra casa è in fiamme”.  Anche la Presidente del Senato, la forzista Elisabetta Alberti Casellati, ricevendola in Senato, con un artificioso ed ovvio discorso ha affidato a Greta le aspettative sul futuro del pianeta. Eppure ad un’autorità come la Casellati basterebbe poco per concretizzare un piccolo, ma significativo, gesto ambientalista. Circumnavigando il palazzo del Senato e gli altri innumerevoli adiacenti edifici di sua competenza avrebbe potuto chiedere alle decine di autisti di macchine di politici, furgoni e macchine civili delle forze di polizia di spegnere i motori, ininterrottamente in funzione per usufruire del caldo in inverno e del fresco in estate. In accordo con il Presidente della Repubblica avrebbe anche potuto chiedere, in occasione della sfilata militare del 2 giugno, di eliminare il passaggio delle Frecce tricolori, formidabili sperpero di danaro: circa 100mila € il costo per un’ora di volo dei nove vettori. La Rai si sarebbe risparmiata l’ilarità di chi, appena ascoltato il commento sull’impegno ambientalista di alcuni reparti militari, ha visto sfrecciare le frecce con il loro enorme carico d’inquinamento acustico ed ambientale. Si sarebbe così potuto almeno abbassare il livello fastidiosamente retorico della nostra dirigenza politica e non. Invece,proprio nel giornata dedicata all’ambiente, il 5 giugno, è stata bocciata al Senato la richiesta di dichiarare “l’emergenza climatica” per l’Italia, contenuta in tre mozioni presentate da Fi, Pd e Leu, che avevano avuto il parere contrario del Governo. Semaforo verde, invece, (con 145 sì, 76 no e 40 astenuti) per la mozione della maggioranza, a firma M5s, che di emergenza non parla. Intanto, una rete di associazioni e comitati ambientalisti, con singoli cittadini, si preparano a fare causa contro lo Stato italiano ritenendolo “colpevole di inazione” di fronte agli effetti irreversibili dei cambiamenti climatici. Hanno lanciato una campagna sul web “Giudizio Universale – Invertiamo il processo” in vista del deposito in autunno degli atti.

Così, nella Giornata mondiale dell’Ambiente – dedicata quest’anno all’inquinamento dell’aria – si consuma in fretta a palazzo Madama il dibattito sulla necessità di intraprendere al più presto misure incisive per contrastare il riscaldamento globale, su cui gli scienziati hanno dato una dozzina d’anni di tempo per intervenire riducendo gas serra e dicendo addio al carbone per consumi energetici. Un’emergenza su cui da mesi centinaia di migliaia di giovani, ispirati, come abbiamo visto,  dalla giovanissima attivista svedese, si stanno mobilitando nel mondo.


IL POTERE COMUNICATIVO DI GRETA

Proprio a questo proposito sono significative le parole pronunciate da Greta Thunberg che a gennaio, a Davos, ha detto ai leader mondiali riguardo ai cambiamenti climatici: “La nostra casa è in fiamme. Non voglio che speriate, vi voglio vedere nel panico”. E li ha accusati: “Dite di amare i vostri figli, ma state rubando il loro futuro davanti ai loro occhi”. Invitandoli dunque alla consapevolezza e alla responsabilità. I #FridayForFuture, lo sciopero mondiale per il futuro e la mobilitazione partita dalla ragazzina svedese portano a una riflessione. Perché tutto ciò fa parte di una comunicazione, di un messaggio che i media contribuiscono a diffondere. Ma si tratta davvero di valori, convinzioni e atti concreti di cui ciascuno fa esperienza direttamente oppure basta mettere un like sui social alla foto di Greta per illudersi di dare il proprio supporto? C’è anche un altro rischio legato ai media, ossia quello che allarmismo e catastrofi annunciate, possano vaccinare il pubblico e renderlo indifferente.

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Se l’ambiente fosse davvero una priorità, i Paesi si porrebbero obiettivi più ambiziosi. Troppo facile dare la colpa solo a Trump perché la verità, come dice il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, “è che finora per una decisiva risposta multilaterale sono mancate una leadership, un vero impegno e proprio un senso di urgenza”. Anche l’Europa ha le sue colpe. Un esempio su tutti: l’Ue ha approvato un pacchetto di misure per l’energia con l’obiettivo di raggiungere il 32% di energia da fonti rinnovabili al 2030. Target che però, ha denunciato tra gli altri Greenpeace, è troppo poco ambizioso. Eppure in emergenza siamo. Ce lo dice il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) che nel rapporto presentato a ottobre ha spiegato cosa accadrà se il riscaldamento globale dovesse superare l’1,5 °Celsius, soglia che – se si dovesse continuare a emettere la stessa quantità di CO2 che viene rilasciata nell’aria oggi – potrebbe già essere superata nel 2030 (ossia tra appena 11 anni).

Si deve comunque ammettere che, dall’attenzione  iniziale posta sulle misure di mitigazione  finalizzate a  ridurre  le emissioni di gas ad  effetto  serra, gli  obiettivi  di  politica  climatica  dell’Unione  Europea  (UE)  negli  ultimi  due decenni  sono  stati progressivamente  ampliati  fino  ad  includere  le  azioni  di  adattamento  agli impatti dei cambiamenti climatici. Questo processo è stato motivato principalmente dal succedersi di eventi calamitosi di gravità senza precedenti in molte regioni d’Europa, quali intense ondate di calore  e  alluvioni  di  vaste  proporzioni,  che  hanno  sollevato  la  preoccupazione  generale  verso  la necessità  di  definire  strategie  e  misure  per  adattarsi,  cioè  ridurre  la  vulnerabilità  e  aumentare  la resilienza  agli  effetti  dei  cambiamenti  climatici  già  in  atto.  Tuttavia,  risulta difficile  fornire  una cifra  coerente  degli  impatti  dei  cambiamenti  climatici  e  dei  costi  per  adattarsi  ad  essi  a  livello europeo.  Il valore minimo complessivo  in Europa di un mancato adattamento è stimato  tra  i 100 miliardi di Euro all’anno nel 2020 a 250 miliardi di Euro nel 2050, considerando solo un numero molto limitato di impatti (EEA, 2012). In assenza di misure di adattamento, oltre ai costi economici anche i costi sociali derivanti dagli eventi estremi potrebbero essere significativi. Ad oggi,  l’UE  rivolge  il suo  impegno politico in egual misura alla mitigazione e all’adattamento, che  sono  riconosciute  quali  azioni  complementari  per,  rispettivamente, contenere  le  cause  dei cambiamenti  climatici  e  affrontarne  le  conseguenze  positive  o  negative.  Inoltre,  l’adattamento  si presta a supportare gli obiettivi politico‑economici generali dell’UE, elaborati nella strategia per la crescita “Europa 2020”e la transizione verso unʹeconomia sostenibile, efficiente dal punto di vista delle risorse, attenta all’ecologia e caratterizzata da basse emissioni di carbonio.

Sviluppo sostenibile

Il concetto di sostenibilità ambientale ha fatto registrare una profonda evoluzione che, partendo da una visione centrata preminentemente sugli aspetti ecologici, è approdata a un significato più globale, che tenesse conto delle dimensioni sociale ed economica, oltre che ambientale. I tre aspetti sono stati comunque considerati in un rapporto sinergico e sistemico e, combinati tra loro in diversa misura, sono stati impiegati per giungere a una definizione di progresso e di benessere che superasse in qualche modo le tradizionali misure della ricchezza e della crescita economica basate sul PIL. In definitiva, la sostenibilità implica un benessere (si parla quindi di sostenibilità ambientale, sociale ed economico) costante e preferibilmente crescente nella prospettiva di lasciare alle generazioni future una qualità della vita non inferiore a quella attuale.

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Premesse storiche

Nel 1973 la crisi petrolifera scosse l’economia mondiale, poiché a seguito della guerra fra Israele e Paesi arabi, questi ultimi decisero di diminuire le esportazioni di petrolio verso l’Occidente e di aumentarne il prezzo per fare pressioni sugli Stati Uniti e l’Europa in favore della causa palestinese. Diversi Paesi del mondo si trovarono ad affrontare una grave crisi finanziaria; infatti come conseguenza dell’aumento del costo del petrolio aumentarono i costi dell’energia e quindi l’inflazione.
La conseguenza della crisi energetica del ’73 fu l’applicazione di politiche di austerità da parte di vari Paesi nel mondo, che presero misure drastiche per limitare il consumo di energia.
La crisi petrolifera rappresentò per l’Occidente un’occasione di riflessione sull’uso delle fonti rinnovabili che vennero per la prima volta prese in considerazione in alternativa ai combustibili fossili come il petrolio. La crisi, dunque, portò i paesi occidentali a interrogarsi per la prima volta riguardo ai fondamenti della civiltà industriale e riguardo alla problematicità del suo rapporto con le risorse limitate del pianeta.
Nel 1972, inoltre, era stato pubblicato da parte di alcuni studiosi del Massachusetts Institute of Technology il rapporto sui Limiti dello sviluppo, commissionato dal Club di Roma. Tale rapporto riportava l’esito di una simulazione al computer delle interazioni fra popolazione mondiale, industrializzazione, inquinamento, produzione alimentare e consumo di risorse nell’ipotesi che queste stessero crescendo esponenzialmente con il tempo.
Dalla simulazione veniva messo in evidenza che la crescita produttiva illimitata avrebbe portato al consumo delle risorse energetiche e ambientali. Il rapporto sosteneva, inoltre, che era possibile giungere a un tipo di sviluppo che non avrebbe portato al totale consumo delle risorse del pianeta.
Dunque, l’idea di un modello di crescita economica che non consumasse tutte le risorse ambientali e le rendesse disponibili anche per il futuro si fa strada a partire dalla prima metà degli anni settanta, e infatti proprio nel giugno del 1972 si tenne la Conferenza ONU sull’Ambiente Umano.
Alla fine degli anni ottanta l’oncologo svedese Karl-Henrik Robèrt coordinò un ampio processo di creazione di consenso nella comunità scientifica per dare una definizione sistemica-globale e operativa di sostenibilità, le Condizioni di Sistema, che comprendono sia aspetti ecologici sia sociali. Tale definizione consente di rendere concreti i principi teorici dello sviluppo sostenibile, ed è la base di processi partecipativi efficaci. Da quel processo emerse il Framework di Sviluppo Sostenibile Strategico, noto anche come The Natural Step framework, adottato dai primi anni novanta da migliaia di organizzazioni nel mondo. La prima azienda ad adottare il framework fu IKEA, dal 1990. Circa un quarto dei comuni svedesi adottano questa definizione per la loro pianificazione. Il Comune di Whislter, British Columbia, Canada, che ha ospitato le Olimpiadi invernali del 2010 e ha adottato il Framework di The Natural Step dal 2001, ha vinto il LivCom Award, come miglior esempio al mondo di pianificazione per il futuro.
Una successiva definizione di sviluppo sostenibile, in cui è inclusa una visione globale, è stata fornita, nel 1991, dalla World Conservation Union, UN Environment Programme and World Wide Fund for Nature, che lo identifica così:
« …un miglioramento della qualità della vita, senza eccedere la capacità di carico degli ecosistemi di supporto, dai quali essa dipende ».
Nello stesso anno l’economista Herman Daly definisce lo sviluppo sostenibile come «… svilupparsi mantenendosi entro la capacità di carico degli ecosistemi» e quindi secondo le seguenti condizioni generali, concernenti l’uso delle risorse naturali da parte dell’uomo:
il peso dell’impatto antropico sui sistemi naturali non deve superare la capacità di carico della natura;
il tasso di utilizzo delle risorse rinnovabili non deve essere superiore alla loro velocità di rigenerazione;
l’immissione di sostanze inquinanti e di scorie non deve superare la capacità di assorbimento dell’ambiente;
il prelievo di risorse non rinnovabili deve essere compensato dalla produzione di una pari quantità di risorse rinnovabili, in grado di sostituirle.

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In tale definizione, viene introdotto anche un concetto di “equilibrio” auspicabile tra uomo ed ecosistema, alla base di un’idea di economia per la quale il consumo di una determinata risorsa non deve superare la sua produzione nello stesso periodo.

Nel 2001, l’UNESCO ha ampliato il concetto di sviluppo sostenibile indicando che «…la diversità culturale è necessaria per l’umanità quanto la biodiversità per la natura (…) la diversità culturale è una delle radici dello sviluppo inteso non solo come crescita economica, ma anche come un mezzo per condurre una esistenza più soddisfacente sul piano intellettuale, emozionale, morale e spirituale». (Art 1 e 3, Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale, UNESCO, 2001). In questa visione, la diversità culturale diventa il quarto pilastro dello sviluppo sostenibile, accanto al tradizionale equilibrio delle tre E.
In particolare, il nuovo concetto di sviluppo sostenibile proposto dall’UNESCO ha contribuito a generare approcci multidisciplinari sia nelle iniziative politiche sia nella ricerca.

In conclusione.

Lo sviluppo sostenibile, lungi dall’essere una definitiva condizione di armonia, è piuttosto processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali. Tale processo lega quindi, in un rapporto di interdipendenza, la tutela e la valorizzazione delle risorse naturali alla dimensione economica, sociale e istituzionale, al fine di soddisfare i bisogni delle attuali generazioni, evitando di compromettere la capacità delle future di soddisfare i propri.
In questo senso la “sostenibilità dello sviluppo” è incompatibile in primo luogo con il degrado del patrimonio e delle risorse naturali (che di fatto sono esauribili) ma anche con la violazione della dignità e della libertà umana, con la povertà e il declino economico, con il mancato riconoscimento dei diritti e delle pari opportunità.

Deve essere, quindi, contestualmente enfatizzata la tutela dei bisogni di tutti gli individui, in un’ottica di legittimità universale ad aspirare a migliori condizioni di vita; così come viene sottolineata la necessità e l’importanza di una maggiore partecipazione dei cittadini, per attuare un processo effettivamente democratico che contribuisca alle scelte a livello internazionale:
« Lo sviluppo sostenibile impone di soddisfare i bisogni fondamentali di tutti e di estendere a tutti la possibilità di attuare le proprie aspirazioni ad una vita migliore (…) Il soddisfacimento di bisogni essenziali esige non solo una nuova era di crescita economica per nazioni in cui la maggioranza degli abitanti siano poveri ma anche la garanzia che tali poveri abbiano la loro giusta parte delle risorse necessarie a sostenere tale crescita. Una siffatta equità dovrebbe essere coadiuvata sia da sistemi politici che assicurino l’effettiva partecipazione dei cittadini nel processo decisionale, sia da una maggior democrazia a livello delle scelte internazionali ».

 

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