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Razzismo


IL NUOVO RAZZISMO

Se cerchiamo il termine razzismo sul vocabolario, troviamo la seguente definizione: “ogni tendenza, psicologica o politica […] che, fondandosi sulla presunta superiorità di una razza sulle altre o su di un’altra, favorisca o determini discriminazioni sociali o addirittura genocidio”. Una definizione oggettiva, senza possibilità di essere tacciata di errore perché si basa proprio sul significato della parola. È difficile quindi vedere dei lati positivi nel razzismo visto che, anche solo leggendo la spiegazione del termine, al vocabolo “genocidio” viene subito in mente Adolf Hitler che millantando una presunta superiorità della razza ariana ha ucciso milioni di ebrei nei campi di concentramento.
ll razzismo, di fondo, sembra quindi essere una mera forma di odio nei confronti del diverso per cui ogni differenza viene considerata come dannosa. La vita di ogni giorno, però, ci insegna come le diversità siano un valore aggiunto alla nostra esistenza. Se tutti fossimo uguali non conosceremmo idee diverse dalle nostre, non conosceremmo la bontà di piatti etnici provenienti dall’altra parte del mondo, non sapremmo nemmeno dell’esistenza di culture diverse da quella a cui apparteniamo. Il famoso antropologo Claude Lévi Strauss una volta ha detto: “Per capire meglio la realtà fate un passo indietro e osservatela con uno sguardo lontano. Capirete così che la diversità, in quanto tale, non può essere inferiore”. Questa frase, divenuta celeberrima, è esplicativa: cercare di guardare il mondo con un occhio più distaccato, come si fa con un quadro di un grande artista, è la chiave per rendersi conto di quanto le culture più lontane e diverse dalla nostra non devono essere temute, ma comprese perché si può sempre imparare qualcosa.

Lanciare il sasso, nascondere la mano.

Si è scritto spesso della fortuna, se cosí vogliamo chiamarla, dell’espressione «non sono razzista, ma…»: della sua diffusione, del suo uso cosí frequente e pervasivo. E di come in genere le persone che la utilizzano esprimano invece – piú o meno consapevolmente, attraverso la figura retorica della preterizione– opinioni e posizioni molto ambigue, quando non chiaramente razziste, introdotte dalla congiunzione avversativa «ma».
Meno spesso si è fatto notare, però, che se la frase ha cosí larga circolazione non è (sol)tanto per l’aumentata presenza e visibilità di coloro , appunto, che dicono «non sono razzista, però…» –, quanto perché, malgrado tutto, il razzismo (e il dichiararsi apertamente razzisti) è considerato ancora causa di stigma sociale, in Italia. Ovvero, nessuno (o quasi) vuole o vorrebbe sentirsi bollare come razzista per paura di incorrere nella censura, nella sanzione e nell’isolamento sociale, quali che siano le sue reali posizioni.
Anche in presenza di gesti e atti verbali che definiremmo razzisti – ovvero discriminanti sulla base di una presunta distinzione e superiorità (razziale) di un gruppo rispetto ad altri –, sentiremmo probabilmente dire, dai responsabili di questi comportamenti, «non sono razzista», «questo non è razzismo», «sono solo realista». O cose del genere.
Uno degli esempi piú recenti di questa negazione è stato fornito da alcuni videoclip che in Italia hannofatto il giro del web .Videoclip che mostravano alcuni esponenti di Forza Nuova e alcuni abitanti di un piccolo centro alle porte di Roma, nell’atto di protestare contro la temporanea sistemazione di un gruppo di rifugiati presso una struttura di accoglienza della zona. A rivedere quelle immagini (e quella chiusura rabbiosa nei confronti dei nuovi arrivati da parte dei manifestanti),si nota ad esempio come i protagonisti delle intimidazioni– malgrado la loro violenta opposizione alla presenza dei profughi – non volessero essere etichettati come «razzisti». «Non siamo razzisti», ripetevano infatti a chi chiedeva loro le ragioni della protesta. Ma se non era razzismo, che cos’era? Già, come definire quella violenza? Razzismo? Nuovo razzismo? Odio verso lo straniero? Un primo passo per disarticolare il discorso razzista sarebbe quello di chiamarlo per nome. Di non tentennare davanti alle definizioni, anche se queste cambiano, mutano, sembrano sfuggenti. Perché – anche solo per opposizione semantica, per chiarezza terminologica –l’antirazzismo è tanto piú efficace se si misura con qualcosa di preciso. Se chiama le cose col loro nome, senza timore di indorare la pillola, di affrontare la realtà per quello che è. Tuttavia, non sempre questo è facile, immediato, evidente. Lo sappiamo da almeno tre decenni: il razzismo cosiddetto «classico» (un insieme di teorie elaborate tra Sette e Ottocento e culminate nel Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, di Joseph-Arthur de Gobineau) basato sull’idea che il patrimonio biologico-culturale delle popolazioni determini la loro psicologia e i loro comportamenti morali, e che esistano razze superiori perché piú pure rispetto ad altre, oggi trova raramente eco se non in qualche circolo di invasati o nelle parole di qualche agent provocateur smanioso di notorietà. E il razzismo per come lo si è conosciuto nel XX secolo – figlio di quello «classico», padre dei campi di sterminio e della Soluzione finale – è certamente mutato nelle sue rivendicazioni e articolazioni: con un punto di non ritorno, ci si augura, segnato dalla caduta, a inizio anni Novanta del secolo scorso, dell’ultimo regime politico basato sull’ineguaglianza razziale sancita per legge, il Sudafrica dell’apartheid. Come è mutato, di conseguenza, il discorso razzista, che non si regge piú tanto (o soltanto) su conclamate ed esplicite gerarchie razziali su base biologica, ma su un intreccio articolato di fattori (e rivendicazioni) sociali e culturali. Tuttavia, le nuove articolazioni del pensiero razzista – che diffondono la convinzione che gruppi umani portatori di determinate caratteristiche culturali siano incompatibili con la cultura dominante, e siano quindi una minaccia per la sua integrità e sopravvivenza – si presentano al pari di quelle «classiche» come un sistema ideologico finalizzato a giustificare discorsi, politiche e pratiche di esclusione ai danni di persone, ad esempio i migranti o le cosiddette «minoranze etniche», ritenuti indesiderabili perché estranei non tanto al patrimonio biologico quanto a quello culturale della maggioranza. E pur in assenza di razze – la cui esistenza è stata definitivamente messa in discussione dalle scienze biologiche e sociali, ma la cui invenzione è stata ed è alla base di ogni razzismo – queste articolazioni si consolidano intorno a un sistema discorsivo eterogeneo ma nella sua approssimazione estremamente coeso e coerente, che va da elementi iconici e simbolici riconoscibili (svastiche, croci celtiche, certa reiterata iconografia coloniale) agli assalti o alle aggressioni verbali (insulti a sfondo razziale: «sporco ebreo», «negro di merda» ecc.), da atti linguistici pragmaticamente dissonanti (il dare del «tu» a qualcuno perché ritenuto inferiore anche quando le regole della pragmatica e della politeness prevedono il «lei») a stereotipi e rozzezze terminologiche («gli zingari son tutti ladri», l’uso di marocchino per indicare una qualsiasi persona proveniente dall’Africa), dalle generalizzazioni volutamente semplificanti (se uno straniero commette un crimine allora tutti gli stranieri sono criminali) alla negazione di argomentazioni solide e razionali a favore di slogan e isterici piagnistei («Perché l’accoglienza di questi venti profughi sarebbe un problema?», «Perché l’Italia è piena. Ora basta!», «Perché a noi chi ci accoglie?»)
Questo neorazzismo, piú che come un paradigma, si configurerebbe quindi come un insieme (articolato) di manifestazioni che attraversa ceti sociali diversi, che si specchia nel «razzismo istituzionale» .
Definire allora che cosa si intenda per razzismo oggi, diventa ancora piú urgente: sia per evitare che tutto sia «razzismo» e quindi– in buona sostanza – nulla lo sia in modo specifico, sia per non aver paura di chiamare le cose col loro nome. E qui bisogna intendersi. Definire aiuta a rendere chiari discorsi e argomentazioni. Ma non significa che si possa risolvere tutto con forzate raccomandazioni linguistiche. Una (discussa) risposta dall’alto al razzismo (e quindi, alla definizione di razzismo), «classico» o «neo-» che sia, è ad esempio la proposta di sopprimere la parola razza dai testi legislativi, a cominciare dalla Costituzione. È una proposta che ha le sue ragioni (per togliere legittimità al razzismo e visibilità al suo vocabolario, si sradichi la sua base lessicale– a cominciare da razza – dal discorso), ma che pare piú utile a suscitare un dibattito che non a fornire indicazioni realmente spendibili. Per questo, per motivi di merito e metodo, vale la pena soffermarvisi. Certo, dovendo essere per sua natura un testo sempre attuale, la Costituzione dovrebbe confrontarsi, anche, con le novità giuridiche, sociali e culturali emerse negli ultimi decenni. Come è altrettanto plausibile che, cambiando le conoscenze, anche il linguaggio dovrebbe in qualche modo adeguarsi e modificarsi, per rendere ragione di quei cambiamenti. Ma, ed è questo il primo elemento di perplessità, il linguaggio si modifica a partire soprattutto dall’uso dei parlanti. È l’uso dei parlanti, e la loro accettazione di norme e regole – all’interno di una visione linguistica che sia descrittiva e non prescrittiva –, la prima vera cartina di tornasole di ciò che si dice e non si dice (piú). Prima di imporre un cambiamento dall’alto, sarebbe quindi utile capire, forse, se e quanto gli italiani usano (ancora) la parola razza, e come la usano. Siamo certi che nel linguaggio corrente razza sia stata ormai sostituita, ad esempio, da gruppo etnico o da altre formule (etnia, cultura, tradizione) ritenute piú accettabili? Inoltre, ed è il secondo elemento di perplessità, la proposta di espungere razza pare offrire il fianco a chi dice che gli intellettuali hanno il vizio non soltanto del politicamente corretto – concetto su cui ritorneremo piú avanti – ma anche di un politicamente corretto «retroattivo». Ovvero: non vogliono solo censurare la lingua dell’oggi, ma anche cambiare la lingua di ieri in ragione delle sensibilità di oggi. Imponendo, di fatto, categorie e definizioni anacronistiche. Sarebbe davvero legittimo – e soprattutto utile – intervenire su un testo scritto in un determinato contesto storico, per determinate ragioni e con determinate attenzioni formali, a partire dalla lingua? E cambiarne il lessico per scrupoli che poco hanno a che fare con quel contesto? Invece di eliminare la parola razza dal testo della Costituzione, insomma, non sarebbe piú produttivo riflettere sul fatto che anche in assenza di razze, e in presenza di gruppi etnici o di qualsiasi altra formulazione alternativa si voglia utilizzare, il razzismo non è affatto scomparso, ma anzi si articola– come già detto – in nuove pericolose forme, anche sul piano linguistico? In questo contesto fa specie il (risibile) balletto dei senatori del Partito democratico presenti nella Giunta per le immunità parlamentari del Senato che il nel febbraio 2015 hanno assolto il vicepresidente del Senato Calderoli dall’accusa di razzismo, avendo questi dato dell’«orango» all’ex ministra dell’Integrazione Cécile Kyenge. La Costituzione e la legge condannano il razzismo, «in modo che esso non rientra nella libertà di espressione». Tanto meno il razzismo è tollerabile quando chi se ne fa portavoce, per la posizione pubblica che riveste, ha influenza ed eco nella società».Ora, come sappiamo, i parlamentari non rispondono delle opinioni espresse nell’esercizio della loro funzione. Anchequesto è previsto dalla Costituzione. Ma la Giunta per le immunità parlamentari del Senato, o almeno la parte sulla carta piú sensibile di essa, non poteva almeno condannarenquell’insulto? Non poteva ad esempio sostenere che non si era trattato affatto di lecita critica politica, come fu detto in sede difensiva, ma di un vero e proprio atto di razzismo verbale, per di piú non richiesto dall’esercizio delle funzioni parlamentari (Calderoli lo formulò infatti a un comizio del suo partito)? Almeno nelle sedi istituzionali, non si dovrebbe evitare di dar corso a certo linguaggio, che invece per sciatteria e per calcolo parrebbe diventato prassi politica, e quindi tollerato e addirittura nobilitato. E su questo slancio, non dovremmo richiedere a gran voce che vengano considerati atti di razzismo anche gli insulti che compaiono, sempre piú copiosamente, sui social network? Un discorso a parte, infatti, merita la virulenza e la pervasività di certo linguaggio aggressivo, violento e razzista in blog, commenti , articoli di giornale, Facebook, Twitter ecc. La cosiddetta blogosfera è il vero Far West dell’intolleranza, oggi: perché è luogo deresponsabilizzato, incline agli estremismi e alle iperboli, povero di argomentazione e privo di reale dibattito. Ebbene, davvero libertà di espressione significa libertà di insultare, facendo ricorso a un vocabolario e a un immaginario chiaramente razzisti e discriminatori nei confronti di persone con diverso colore della pelle, migranti, omosessuali, rom, malati ecc.? Davvero non si potrebbe chiedere di costituire un osservatorio permanente,
sulle bufale che girano in rete – approdando talvolta anche su testate giornalistiche considerate serie – circa i migranti e le loro piú immaginifiche nefandezze e perversioni, per monitorare l’esplosione e la diffusione (questa sí perversa) dei razzismi sul web? Per capire insomma come la xenofobia e il razzismo si muovano, articolino, diffondano in rete e – a detta degli osservatori – in una parte spesso poco visibile e silente ma tutt’altro che virtuale della società?
Rimaniamo su Internet. L’8 settembre 2015 «il Giornale» ha pubblicato un articolo di cronaca politica intitolato La Kyenge imbavagliata? Io ricevo insulti ogni giorno. E fin qui non c’è nulla di cui stupirsi. Lo stupore, semmai, arriva dopo, leggendo i commenti dei lettori all’indirizzo di Kyenge:
Questa negra diventa sempre piú insopportabile
Che gnocca !!! ma non le hanno ancora proposto di FARE un calendario?
Negra ex clandestina sei la prima razzista nei confronti degli italiani doc (nel senso che tu sei congolese).
chienge, ma quante banane al giorno ci costa?
Ma come si permette questa beduina…
Malgrado il loro tenore estremamente violento e offensivo, questi commenti sono rimasti visibili a tutti, per giorni. Nessuno, nella redazione web de «il Giornale», si è preso la briga di interrogarsi sulla loro insostenibile gratuità e violenza. Se non sono stati rimossi non era per ragioni tecniche, quali la difficoltà di moderare il dibattito sul web, quanto piuttosto per una scelta redazionale della testata. Nasce dunque un’ulteriore urgenza: la necessità di agire contro l’ hate speech? L’ hate speech – espressione che in italiano tradurremmo con «discorso che incita all’odio» – è una categoria, giuridica prima ancora che discorsiva, elaborata dalla giurisprudenza statunitense per indicare un genere di parole ed espressioni la cui funzione è quella di esprimere e diffondere odio e intolleranza verso una persona o un gruppo di persone, e il cui uso può provocare reazioni violente contro quei soggetti o, per reazione, da parte di quella persona, di quel gruppo. Ciò vale sia per i mezzi di informazione tradizionali (la carta stampata, le Tv, le radio), sia – a maggior ragione – per quelli digitali, dove ormai passa non solo gran parte della comunicazione politica, ma anche della formazione dell’opinione pubblica, e della sua espressione. Senza contare, come anticipato, i social network e i motori di ricerca. A causa dei grandi numeri che li caratterizzano, per i social network e per i grandi gruppi del web è tecnicamente difficile verificare e valutare tempestivamente la qualità dei materiali caricati dagli utenti, e sviluppare efficienti sistemi automatici di blocco preventivo dei contenuti ritenuti (o da ritenersi) offensivi, denigratori, violenti. Vista la delicatezza della materia, le grandi aziende – come Google – affidano la compilazione delle norme di utilizzo dei loro servizi a un gruppo di lavoro specifico: i deciders, quelli che decidono. YouTube – acquistata da Google nel 2006 – dal canto suo vieta esplicitamente lo hate speech. Facebook invece allarga un po’ le maglie: vieta lo hate speech con l’eccezione di messaggi con chiari fini umoristici o satirici. Twitter è la meno sorvegliata tra le piattaforme globali: non vieta esplicitamente lo hate speech e neppure lo cita nelle sue policy, pur non essendone affatto immune. Facebook vieta gli attacchi ai gruppi ma non alle istituzioni. Cosí, ad esempio, le stringhe di testo «odio l’Islam» o «odio il Papa» sono ammesse; «odio i musulmani» o «odio i cattolici», in teoria, no. Sono ammesse caricature dei membri di un gruppo – come anche attacchi alla loro fede o ai loro leader – ma non si può diffamare interamente il gruppo. È proprio la perentorietà di queste norme (per quanto schematiche o discutibili) che ha permesso spesso a Facebook di evitare la rimozione forzata di contenuti ritenuti blasfemi da alcuni governi e dai loro cittadini. Ma è anche questa che causa, ogni settimana, la ricezione di piú di due milioni di richieste di rimozione di materiale da parte degli utenti. In genere, la compilazione di norme di utilizzo sempre piú chiare e definite rimane una priorità rispetto al lavoro tecnico di perfezionamento degli algoritmi, perché alla fine i deciders si ritrovano spesso di fronte alla necessità di correggere manualmente gli esiti dei processi automatici o prendere provvedimenti rapidi in risposta alle richieste di rimozione. Anche Google corregge manualmente le risposte restituite dagli algoritmi quando non rispettano le policy dell’azienda, escludendo quotidianamente dai risultati di ricerca i contenuti che violano le norme. Il compito, tuttavia, risulta tutt’altro che semplice nel caso della funzione di autocompletamento (i suggerimenti proposti da Google in base alle ricerche piú frequenti effettuate dagli utenti): in questo caso, la correzione dei suggerimenti richiede un lavoro di aggiornamento costante da parte degli operatori (umani). Se nella sua ricerca l’utente digita parole chiaramente appartenenti al lessico dello hate speech (come nigger) Google disattiva la funzione di autocompletamento. Ma non sempre il riconoscimento è cosí immediato, e occorrono le segnalazioni degli utenti per far rimuovere i suggerimenti inopportuni e offensivi. Se dai social network si passa ai mezzi di informazione quali i giornali online, non si tratta piú soltanto di operazioni meccaniche regolate da algoritmi, di sensibilità individuali, o di interventi discrezionali per ciascuna piattaforma, ma di deontologia e responsabilità professionale.


Fino agli anni Settanta, negro, nero e di colore sono stati usati quasi come sinonimi e con connotazioni di significato molto simili (tutt’al piú, erano caratterizzati da un diverso uso sintattico, essendo gli ultimi due impiegati soprattutto in funzione aggettivale). Negro, fra i tre, era certamente quello piú storicamente attestato, piú semanticamente pregnante. Tradizionalmente, identificava una presunta «razza» (la «razza negra», o «i negri», appunto) a cui nei secoli erano state attribuite precise e specifiche caratteristiche, sia fisico-somatiche sia morali (ancora a metà degli anni Cinquanta – anni in cui cominciò a vacillare lo stesso concetto di razza – era possibile leggere sul Vocabolario della lingua italiana Zanichelli che i negri erano «popoli d’Africa di colore scuro […] con cranio stretto e alto, prognatismo […] collo grosso, pelle grossolana, statura piuttosto alta, vivaci ecc.»). Nell’accezione razziale, negro veicolava giudizi di inferiorità. Ed evocava secoli di crimini commessi nel nome dei concetti che evocava. Tuttavia il termine poteva essere utilizzato – soprattutto in funzione aggettivale– senza provocare scandalo, o senza essere ritenuto necessariamente offensivo. Solo all’inizio degli anni Settanta, in seguito alle lotte dei neri americani, alcuni traduttori avrebbero cominciato a preferire all’uso di negro quello di nero, che rendeva piú fedelmente l’angloamericano black, assurto a simbolo e parola chiave dei movimenti per i diritti delle minoranze negli Stati Uniti («Black power», «Black is beautiful» ecc.). Ciò non inibí, comunque, la circolazione di negro, che anzi negli anni Ottanta poteva essere usato – con pretesa di neutralità – dai piú importanti media nazionali in relazione al fenomeno dell’immigrazione, e alla crescente presenza, in Italia, di immigrati provenienti – in prevalenza– dall’Africa, e quindi negri o neri per definizione. Qualcosa cambiò con l’inizio degli anni Novanta, quando importammo il dibattito sul politicamente corretto dai paesi anglosassoni, che ha certamente avuto dei riflessi nell’interdizione dell’italiano negro), ma ha offerto soprattutto spunti di discussione sul valore discriminante di alcune categorie ed etichette verbali all’interno di una società complessa, dove i rapporti di forza e di potere tra la maggioranza e le minoranze passano anche attraverso il linguaggio. Quale che sia l’opinione rispetto al movimento del politicamente corretto e alle sue rivendicazioni, è stata probabilmente questa maggiore attenzione all’uso delle parole (e alle loro ripercussioni sociali), seppur indotta, ma cresciuta non a caso nei decenni in cui il fenomeno dell’immigrazione ci ha messo di fronte alla presenza dell’altro, a far sí che negro, oggi, appartenga soprattutto alla sfera del vituperio.
Perché è nella prassi che negro è generalmente avvertito dai parlanti come offensivo, discriminante: sia da chi lo utilizza, consapevolmente, per insultare (ad esempio, in binomi lessicali pressoché fissi come «sporco negro», «negro di merda»), sia da chi lo riceve, come epiteto. E anche da chi, pur obiettando che esso è etimologicamente giustificato, avverte la necessità di sostituirlo con nero, consapevole tanto delle connotazioni legate storicamente a negro quanto delle norme sociali che ormai di quest’ultimo regolano l’uso.

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