Il significato delle scienza secondo Einstein

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La logica vi porterà da A a B. L’immaginazione vi porterà dappertutto.

A. Einstein

Indice

Con lui riscopriamo la necessità della passione per il sapere:

«Io ritengo, tutto sommato, che l’amore sia un maestro più efficace del senso del dovere».

Il genere Homo è apparso sulla Terra molti milioni di anni fa, come già suggerirono le scoperte effettuate ad Hadar, in Etiopia, e a Leatolil, in Tanzania, fin dai lontani anni 1975 e 1976. E da quando l’uomo esiste pare che abbia sempre manifestato un comportamento in cui sono riscontrabili componenti scientifiche (all’inizio tecnologiche), artistiche, magico-religiose, e così via. Un esempio ce lo forniscono certe amigdale in pietra ascendenti a quasi un milione di anni fa, in cui la stessa ricerca della perfezione simmetrica non ha,né può avere, fini semplicemente utilitaristici e funzionali. In ogni caso l’uomo ha sempre agito sulla natura, e osservato razionalmente la realtà, mediante gli strumenti sensoriali e logici ereditati da oltre tre miliardi di anni di evoluzione biologica, evoluzione avvenuta in presenza di una continua interazione tra il vivente e il mondo esterno. Il maggiore risultato di questo continuo sforzo, non solo di operare sulla realtà, ma anche di comprendere i meccanismi di tale azione (o, meglio, interazione), nonché di razionalizzare e socializzare il mondo delle proprie sensazioni per arricchire la comunicazione con i propri simili, è stato la creazione del linguaggio: creazione in cui è facile riconoscere il contributo di tutte le facoltà umane, e tra i primi il contributo dell’atteggiamento scientifico (si pensi al carattere «inter-soggettivo» del linguaggio). In un certo senso la scienza moderna non fa altro che ampliare (con telescopi o microscopi) e approfondire (con misurazioni precise) il campo della nostra esperienza, per costruire quindi un supplemento di linguaggio atto a descrivere (e«capire») i nuovi mondi di esperienza. Da questo punto di vista l’attività scientifica dell’uomo nei millenni presenta forti caratteri di continuità. Essa, inoltre, è in una certa misura «spontanea» e universale: già da poppanti di fronte al fenomeno della gravità cominciamo tutti a fare prove e riprove –per noi utili e necessarie – sul modo di agire di questa forza… Successivamente alcuni rallentano l’attività scientifica; altri, invece, non si accontentano e la continuano, per di più interiorizzandola e mutandola da istintiva in razionale ed esplicita. La scienza è una creazione dello spirito umano, direi anzi una «libera creazione», nello stesso senso in cui sono libere ad esempio le arti o le matematiche. Tanto le scienze quanto le arti e le matematiche devono cercarsi valori inter-soggettivi per essere riconosciute dalla comunità umana (accomuno sempre arti e matematiche perché non vedo differenze sostanziali tra musica o architettura da una parte, e matematica dall’altra parte). Einstein stesso dichiarò nel 1933: «I postulati e i concetti fondamentali sui quali si basa la fisica teorica sono libere invenzioni dell’intelletto umano…, e costituiscono la parte essenziale di una teoria, la parte che la logica non può toccare». La scienza, naturalmente, viene sviluppandosi con caratteristiche proprie, soprattutto di metodo, ma essa richiede doti di creatività, intuizione, fantasia, senso estetico non meno che di intelligenza, logica, coerenza,spirito critico, spirito di osservazione quantitativa,precisione, onestà, costanza, abilità «tecnica» in senso sperimentale o teorico-matematico, e così via. Il moderno pensiero scientifico (purtroppo rimasto misconosciuto, e non ancora diffusosi in un «umanesimo scientifico») da molti decenni ha al suo attivo contenuti culturali, formativi, filosofici, logici, che sono forse il prodotto più caratteristico e l’eredità del nostro secolo. Ma, come si è cercato di dire, la scienza al pari degli altri prodotti dell’uomo si è sempre sviluppata con continuità durante l’evoluzione umana; anche se un caratteristico errore prospettico ci fa sembrare tanto più lento il progresso quanto più esso è antico. Semmai si può dire che, soprattutto dalla fine del diciassettesimo secolo, la scienza ha assunto con evidenza il proprio carattere di essere una costruzione fondata sulla cooperazione di molti: la collaborazione di molti studiosi, con la loro naturale varietà di interessi e talenti, produce quella messe di osservazioni, calcoli, idee che permette i progressi successivi e che costituisce l’indispensabile base di partenza per ogni importante conquista (compresa quella del genio). Ciò era stato compreso molto bene da Seneca, il quale – dopo avere discusso delle comete, su cui aveva delle idee molto moderne – concluse non essere ancora giunto il momento per un giudizio definitivo, con le nobili parole: «Accontentiamoci di ciò che abbiamo finora scoperto. Quelli che verranno dopo di noi aggiungeranno il loro contributo alla verità». Anche Einstein non considerò le proprie equazioni della relatività generale come l’ultima parola, chiamandole anzi «effimere», e in una sua lettera privata scrisse: « Tu immagini che io guardi indietro alla mia vita con calma soddisfazione. Ma da vicino le cose appaiono diversamente. Non c’è un singolo concetto della cui incrollabilità io sia convinto, e non so se in generale io sono sulla strada giusta…»


EINSTEIN E IL SIGNIFICATO DEL FARE SCIENZA

Anche i rinnovamenti scientifici, quindi, che sono il risultato di crisi di crescenza, possono dirsi avvenire nella continuità. Avvicinandoci alla  figura di Einstein dobbiamo chiederci non tanto quali rivoluzioni metodologiche egli abbia introdotto, quanto piuttosto come la sua opera e il suo esempio (apportatore di una grande ventata di freschezza) ci abbiano ricondotto alle eterne caratteristiche della grande scienza. Il loro ricordo spesso sbiadisce nei lunghi anni che la scienza suole spendere per sistemare, completare,applicare le teorie esistenti e per raccogliere gli elementi che porteranno alle teorie nuove.


Einstein ci ha ricordato che fare scienza vuol dire non certo redigere un catalogo di fatti (anche se questo può essere un necessario passo preliminare), bensì «capirli» scoprendo ciò che resta costante nel loro manifestarsi e divenire, e facendo quindi discendere le leggi di conservazione così scoperte da un minimo di principi logici e di ipotesi di simmetria.

Egli dichiarava nelle sue Note Autobiografiche: «Una teoria può essere verificata dall’esperienza, ma non esiste alcun modo per risalire dall’esperienza alla costruzione di una teoria. Equazioni di tale complessità, come sono le equazioni del campo gravitazionale, possono essere trovate solo attraverso la scoperta di una condizione matematica logicamente semplice, che determini completamente o quasi completamente le equazioni. Una volta in possesso di condizioni formali abbastanza stringenti, non c’è bisogno di una grande conoscenza dei fatti per costruire una teoria…». Aggiungiamo che Einstein ricorse spesso addirittura ad esperimenti puramente concettuali»(Gedankenexperimente), mostrandone la potenza euristica.

LIBERTÀ E CURIOSITÀ

Einstein ci ha ricordato – col suo stesso esempio – che la scienza per rinnovarsi ha bisogno della fresca novità delle idee dei giovani. Noi siamo abituati a immaginarci Einstein col maglione e i capelli bianchi: ma gli anni «più incredibili» della sua produzione scientifica sono il 1904e 1905, quando egli aveva venticinque anni. Paolo Straneo (già professore emerito all’Università di Genova,nonché suo amico)  ha testimoniato che Einstein già a diciassette anni gli poté esporre chiaramente,passeggiando sulla riva del Lago di Zurigo, quella problematica la cui soluzione lo avrebbe portato otto anni dopo a formulare la Relatività Speciale. Nel 1921 Einstein stesso scrisse a un amico: «La scoperta in grande stile è fatta per i giovani, e di conseguenza costituisce per me una cosa del passato». La scuola tende a volte a squadrare troppo la mente dei giovani in una forma preconfezionata. Einstein ebbe la fortuna di possedere fortissimo l’istinto di proteggere la originalità della sua mente, prima ancora che del suo pensiero. Si lamentò del ginnasio Luitpold, di Monaco, «a causa del metodo di insegnamento noioso e meccanizzato. Tenuto conto della mia scarsa memoria per le parole, esso mi causava gravi difficoltà e mi sembrava insensato tentare di sormontarle. Preferivo pertanto subire punizioni di ogni genere piuttosto che imparare a farfugliare a memoria». Einstein però studiava molto, anche se per conto suo: «Il mio maggior difetto consisteva nella scarsa memoria, soprattutto per parole e testi… Soltanto in matematica e in fisica ero – grazie ai miei studi personali – molto più avanti del programma scolastico, e altrettanto può dirsi per quanto concerne la filosofia, rispetto al programma della Scuola» (a proposito di filosofia, Einstein a tredici anni aveva già letto – e capito – le opere di Kant). Dirà ancora, anche se con riferimento alla musica: «Io ritengo, tutto, sommato, che l’amore sia un maestro più efficace del senso del dovere». Fin da bambino – così come rifuggiva istintivamente dalle coercizioni – non apprezzava la vista e i suoni delle sfilate militari del suo Paese; nel 1933 dichiarò: «La mentalità militare troppo accentuata dello Stato tedesco mi era estranea fin dalla fanciullezza. Quando mio padre si trasferì in Italia, fece i passi necessari – dietro mia richiesta – per liberarmi dalla cittadinanza tedesca, in quanto volevo diventare cittadino svizzero». In seconda ginnasio, anzi, troncò gli studi scolastici per un anno raggiungendo la famiglia a Milano, e vagabondando ad esempio – sembra a piedi –fino a Genova, ove aveva dei parenti (che lo aiuteranno finanziariamente durante gli anni dell’università).Riprese poi gli studi, ma in Svizzera (otterrà la cittadinanza elvetica nel 1901, conservandola per tutta la vita). Dei quattro anni di studio al Politecnico di Zurigo ha lasciato scritto: «Per superare gli esami, volenti o nolenti, bisognava imbottirsi la mente di tutte queste nozioni… Una simile coercizione ebbe su di me un effetto così scoraggiante che, dopo aver superato l’esame finale, per un anno intero mi ripugnò prendere in considerazione qualsiasi problema scientifico. È un vero miracolo che i metodi moderni di istruzione non abbiano ancora completamente soffocato la sacra curiosità della ricerca: perché questa delicata piantina,oltre che di stimolo, ha soprattutto bisogno di libertà… È un gravissimo errore pensare che la gioia di vedere e di cercare possa essere suscitata per mezzo della coercizione e del senso del dovere».  Senza la sua intolleranza per le autorità costituite forse non avrebbe potuto mantenere intatta quella sua formidabile indipendenza di giudizio che gli diede il coraggio (perché di vero e proprio coraggio eroico si tratta) di contraddire alcune delle più diffuse scuole scientifiche del suo tempo. In questo fu aiutato –se così si può dire – dalla sorte apparentemente maligna,che lo tenne lontano dalle università a partire dalla sua laurea (1900) fino al 1909, cioè per ben nove anni. Al termine dei corsi universitari, all’età di ventun anni,chiese infatti un qualsiasi posto all’Università, ma venne respinto: «Stando a quanto mi riferisce la gente, non sono nelle buone grazie di nessuno dei miei ex-professori», scrisse nel 1901. Mentre, per mantenersi,dava lezioni private a Zurigo, dopo di avere pubblicato il primo articolo scientifico (sulla capillarità) si rivolse per ettera al Prof. W. Ostwald: «Poiché sono stato ispirato dal Suo libro sulla chimica generale a scrivere l’allegato articolo, mi permetto di mandarGliene una copia. Con l’occasione, mi azzardo inoltre a domandarLe se per caso non potrebbe essere utile un fisicomatematico che ha familiarità con le misurazioni assolute. Mi prendo la libertà di farLe una simile richiesta solo perché sono privo di mezzi e solamente un incarico del genere mi consentirebbe di perfezionarmi ulteriormente negli studi». Non ottenne neppure risposta, al punto che lo stesso padre di Albert Einstein,all’insaputa del figlio, osò rivolgersi al famoso Accademico scrivendo tra l’altro: «Mio figlio è profondamente amareggiato dall’attuale inattività e ogni giorno di più si radica in lui l’idea di avere fallito nella propria carriera e di non potere più ritrovare la via giusta. Per giunta, lo deprime il pensiero di esserci di peso… Se potesse esserLe possibile trovargli un posto di assistente, o subito o nel prossimo autunno, la mia gratitudine non avrebbe limiti». Un anno dopo, nel 1902, come sappiamo, ottenne (per interessamento del compagno di studi M. Grossmann) il suo impiego all’Ufficio Brevetti di Berna. Questo ufficio gli offrì la protezione necessaria per portare a compimento i lavori fondamentali apparsi poi nel 1905. La originalità delle idee di Einstein, dunque, non fu turbata dalle regole dell’ambiente accademico; eppure non gli mancò lo scambio delle idee perché poté contare sulla colta amicizia, oltre che di Grossmann, anche di un giovane matematico (K. Habicht), di uno studente di filosofia (M. Solovine), e del giovane ingegnere italiano Michele Besso (l’unico che Einstein ringraziò alla fine del suo articolo del 1905 sulla Relatività Speciale). La sua massima fortuna, comunque, fu di potere scrivere in tedesco (allora la lingua della fisica teorica) ed inviare i suoi manoscritti ad una delle maggiori riviste di fisica del tempo, e più ancora di avere trovato sempre immediata accoglienza – pur non appartenendo ad alcuna università – presso la direzione degli Annalen der Physik , capeggiata dal grande Planck; ciò torna a grande onore di Planck e del suo comitato redazionale.

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INTUIZIONE E METODO

Einstein ci ha ricordato che uno dei motori dello scienziato è la fede in una unità razionale del mondo, unità che almeno in parte è percepibile dalla nostra mente. Tra parentesi, la scienza cosiddetta «moderna» è nata (o rinata) in Europa forse perché qui il terreno vi fu in parte preparato dagli studi medioevali della patristica e della scolastica, ispirati alla concezione di un Dio unico. Infatti, per giudicare una teoria, Einstein spesso si domandava se – qualora fosse stato Dio – avrebbe creato l’universo in quel modo. È ben noto, ad esempio, come (nel rifiutare la visione probabilistico-quantistica dei fenomeni microfisici fornita dalla meccanica quantistica) dichiarasse più volte di non credere che «Dio giocasse ai dadi»; e così via. Non dobbiamo,tuttavia, credere che la metodologia della scoperta scientifica conceda troppo all’irrazionale. L’intuizione serve, ad esempio, come mezzo per arrivare a concetti e principi fondamentali – assunti prima come ipotesi provvisorie e poi come postulati formali da cui dedurre una spiegazione teorica del reale, da confrontare infine con l’esperienza.

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