Mi manda Picone

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Nei profili biografici di Federico Baistrocchi, generale designato d’Armata dal 1934 al 1936, ricorrono essenzialmente due episodi. Il primo. Aver trasportato dall’altopiano della Bainsizza al Tagliamento le artiglierie di medio e grosso calibro, e le avrebbe portate anche oltre se l’ufficiale di guardia all’ultimo ponte sul Tagliamento non lo avesse fatto brillare. Il secondo.
Essere stato arrestato nel 1945 e processato, l’anno successivo, con le accuse di «fascistizzazione dell’esercito», «inserimento della milizia fascista nell’esercito», «influenza dello squadrismo fascista nella tecnica militare», «affarismo, intrigo e corruzione» (successivamente sarà assolto con formula piena).


Una delle numerose medaglie appuntate, la medaglia d’argento al valor militare, riguarda gli scontri con l’esercito austroungarico sul fronte trentino in Vallarsa, sul Pasubio, sulla Lora e sull’Alpe di Cosmagnon, dal giugno all’ottobre del 1916. Baistrocchi cav. Federico, da Napoli, colonnello artiglieria divisione. In varie contingenze di guerra preparava e dirigeva, con grande abilità e perizia, l’azione d’artiglieria da lui dipendente, e dava continue e mirabili prove di slancio e coraggio personale.
Cosí recita la motivazione.


nei primi giorni del luglio 1916, l’allora colonnello Baistrocchi non riesce a dormire.
Le sue artiglierie d’assedio sono situate lungo la Vallarsa e la Vallagra, a quote che variano dai 400 ai 1000 metri sul livello del mare. Il suo compito è colpire il Pasubio, l’Alpe di Cosmagnon e i rispettivi rovesci, roccaforti della difesa nemica situate sopra i 2000 metri. A ridosso delle postazioni austroungariche stanno i bersaglieri e gli alpini italiani. Baistrocchi non dorme perché l’artiglieria non riesce a centrare gli austroungarici e nemmeno a fornire copertura alla fanteria, anzi colpisce alle spalle i soldati italiani. Terribile. Nel luglio del 1916, dunque, a notte inoltrata – tanto di dormire non c’è speranza –,il colonnello, angosciato dai tiri della sua artiglieria, aspetta un sottotenente, professore di calcolo all’università di Torino. Lo aspetta e beve due dita di cognac, benzina, come dicono i soldati.
Baistrocchi è paziente ma, mentre aspetta, srotola una carta militare e le sorride fermandola con bicchieri e bottiglia. Per mesi ha chiesto un esperto di calcolo, ma nelle orde di ufficiali in arrivo al fronte non c’era mai nessuno utile, tutti latinisti. Nelle linee di fanteria erano cominciate le defezioni. E quelli che non disertavano erano poco efficaci perché piú impegnati a guardarsi alle spalle che a combattere.
Quando il sottotenente entra, approssimativo nel saluto militare, con baffetti troppo curati e occhiali ovali di metallo, il colonnello non si infastidisce, e nemmeno si perde in specifiche su cosa sia un soldato e come debba presentarsi, mostra al giovanotto le postazioni nemiche, fornisce dati altimetrici e di gittata, elenca cannoni e mitragliatrici e chiede un parere al professore. Lo chiama professore. Che ne pensa professore?, domanda il colonnello al sottotenente. Il tono non è quello del parere ma della soluzione.
Il professore si schermisce, farfuglia qualcosa sul fatto che è sempre stato chiuso nelle biblioteche o nelle aule universitarie, che non potrebbe mai fornire un suggerimento agli artiglieri e alla loro esperienza, suda e pensa, con nostalgia, all’autoritratto dormiente nella Resurrezione di Piero della Francesca.
Baistrocchi riconosce un modo di scusarsi frettoloso che non è torinese e nemmeno toscano (nonostante il sottotenente aspiri troppo alcune consonanti), ma non si allarma, respira, d’altronde lui è napoletano. Ripete, abbassando un poco il tono di voce, Deve calcolare nuove tavole di tiro per le nostre artiglierie d’assalto, quelle in nostro possesso non sono sufficienti. Il professore deglutisce, guarda il bicchiere pieno di cognac, e chiarisce di non avere alcuna nozione di balistica. Il colonnello si volta e tira fuori dalla cassetta d’ordinanza un libro piuttosto ingiallito e lo porge al professore che, per la prima volta, accenna un sorriso perché i libri, al contrario delle mitragliatrici, gli sono familiari. Baistrocchi, prima di richiudere la cassetta, valuta la scorta di cognac, fa per allungare la mano, ma si ferma e torna a guardare il giovanotto. Questo è il trattato di balistica di Francesco Siacci, lo studi e ne ricavi i dati di tiro per le nostre artiglierie contro i capisaldi dello schieramento nemico, da qui a un mese.
Baistrocchi batte i tacchi quasi fosse di fronte al generale di stato maggiore. Ritto e impettito, patriottico. Poi, prendendo fiato e intravedendo se non il sonno, il riposo, congeda il sottotenente Mauro Picone.

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Francesco Siacci, patriota, ufficiale del genio, professore di meccanica celeste e terrestre –dunque di tutte le cose visibili e invisibili – era stato, prima di tutto, uno dei piú grandi balistici del tempo. Il suo necrologio negli Annali dell’Università di Napoli del 1907-1908, recita Autore di un celebre metodo per il calcolo delle tavole di tiro, in cui sono armonicamente fuse importanti esigenze teoriche con le esigenze pratiche derivanti dal fatto che, di tale metodo, non dovevano servirsi degli scienziati di mestiere, bensí degli artiglieri. Siacci si era occupato, nello specifico, dell’effetto della resistenza dell’aria e aveva redatto quelle tavole di tiro che decimavano le truppe italiane. In matematica non esistono principî d’autorità che non possano essere discussi da chiunque ne sia in grado, cosí il tenentino si siede e comincia a studiare.

Mauro Picone

Mauro Picone era nato a Lercara Friddi nel 1885. Il paese, in provincia di Palermo, è noto per le miniere di zolfo e per aver dato i natali a Lucky Luciano. Entrambe, significative e ineguagliate cause di morti violente. Il padre, ingegnere impiegato nelle miniere, aveva investito sia i suoi soldi che la dote della moglie nel prototipo di un macchinario, ideato e assemblato da lui medesimo, che avrebbe dovuto minimizzare la diffusione ambientale
dell’anidride solforosa conseguente all’estrazione dello zolfo. Purtroppo, contemporaneamente alla macchina, erano state scoperte enormi miniere sulfuree in America e l’industria siciliana si era contratta fino a rendere inutile l’invenzione. Sul lastrico e con tre figli, Picone padre comincia a tentare concorsi per insegnare costruzioni negli istituti tecnici e poco dopo, vincitore e vittorioso di una cattedra – risulta primo –, si trasferisce ad Arezzo con la famiglia.
In città, Mauro Picone si appassiona a Piero della Francesca tanto che il padre lo iscrive alla scuola d’Arte del maestro Pini. Nella classe ordinaria invece, Mauro non solo non brilla ma va molto male in aritmetica. Quando Picone padre domanda dei profitti del figlio, i professori rispondono che Mauro non è in grado. Tuttavia l’ingegnere non si scoraggia e manda il ragazzo a lezione privata da una maestra della quale Mauro, pur conservando allegra e devota memoria, ricorda solo il cognome. Maestra Piccioni. In un pomeriggio di sole, durante la consueta lezione
di aritmetica, qualcuno suona al campanello. Una sola volta. È la sarta. La maestra Piccioni lascia Mauro in salotto con gli esercizi e si allontana per provare l’abito.  Il bambino, sentita chiudersi la porta della camera da letto, si avvicina con circospezione, gira la chiave nella toppa ed esce di casa. Le due donne saranno liberate dal marito della Piccioni solo a tarda ora. Il marito della maestra Piccioni, e quello della sarta, rimarranno senza cena.
Conseguita, non senza difficoltà, la licenza elementare, Mauro Picone viene iscritto alla scuola tecnica dove studia solo italiano e geografia e continua ad andare male in aritmetica fino a quando, per un fortunato giro di supplenze, dietro la cattedra non si siede proprio l’ingegnere suo padre. Che subito cambia metodo d’insegnamento. Non piú tabelle, tabelline, equazioni e conti, ma geometria. Insieme al nuovo metodo, arrivano i libri. La geometria, l’algebra e l’aritmetica di Baltzer e dopo il metodo e i libri, arrivano i professori. Al terzo anno entra in classe Michele de Franchis, altro grande geometra che, cogliendo l’eccellenza del giovane Picone, gli regala i libri di Guido Castelnuovo e, quando abbandona la scuola superiore per dedicarsi all’insegnamento accademico, intraprende col ragazzo una proficua corrispondenza sui problemi aperti in geometria algebrica. Le annose canzonature dei compagni di classe sul poco profitto scolastico si trasformano in ammirazione perché Picone risolve gli esercizi a mente, appena i professori finiscono di enunciare il testo. È sempre un professore, di italiano però, Abdelkader Salza, normalista lui pure, che suggerisce a Picone il concorso alla Scuola Normale. Nel racconto che Picone fa del suo esame alla Normale c’è un primo accenno a quella che sarà una linea del suo profilo biografico redatto da lui medesimo. Picone scrive sempre, quando accenna ai concorsi, di essersi classificato primo tra tutti (non solo lui, anche il padre, una genia di primi classificati). E, sempre, nomina il secondo classificato. Questo secondo, di solito, è morto. Picone è dunque l’unico testimone del fatto, ragion per cui il suo scritto biografico ha un tono inconfutabile.

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Superato, nel 1903, l’esame in Normale, Picone non può tuttavia intraprendere subito il corso di studi perché si ammala di tifo. La camera che i genitori affittano per accudirlo è misera e poco luminosa.
Poco luminoso, tredici anni dopo, è pure il suo alloggio sul fronte trentino. Picone si mette all’opera, febbrile, studia al tremolio della candela, e intuisce poco a poco non solo le ragioni del colonnello Baistrocchi ma pure le difficoltà nel calcolo dei dati di tiro in montagna.
Le tavole per l’artiglieria di medio e grosso calibro erano fatte per il tiro in pianura, e prevedevano solo la possibilità di piccolissimi aggiustamenti per minime variazioni di quota, perché, prima che gli uomini fossero in grado di costruire strade affidabili in altura e trattrici sufficientemente potenti, in montagna si sparava con cannoni di piccolo calibro, detti appunto cannoni da montagna e trasportabili con facilità (a dorso di mulo).
Tra le gole montagnose, i dislivelli tra le posizioni di tiro erano ben piú grandi di quelli contemplati nelle tavole di Siacci, spesso pari o superiori alla distanza tra artiglieria italiana e bersaglio austroungarico. Praticamente, sparavamo a occhio. Ciò constatato – scrive Picone – potei facilmente determinare le cause dei disastri provocati dal tiro delle nostre artiglierie, che veniva, spesso, per fatali inevitabili errori di calcolo, centrato sulle nostre difese, anziché su quelle dell’avversario.
Picone, al tremolio della candela, o forse albeggia, dà ancora ragione a Baistrocchi, non ci vuole un miracolo, basta un matematico. Forte del volume di Siacci, Picone ricalcola il moto dei proiettili tenendo conto di venti, correnti ascensionali, rarefazione dell’aria e cosí, dal mese di settembre dello stesso anno, tutte le artiglierie del 21° raggruppamento d’assedio tirano correttamente con le tavole di Picone. E finalmente possiamo fare la guerra.
Quando il 9 ottobre 1916, il generale Graziani, efferato «eroe del Pasubio», sferra l’offensiva contro gli austroungarici, ne esce vittorioso grazie al preciso fuoco delle artiglierie sulle fortificazioni avversarie.

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Dopo il successo sul Pasubio e sull’Alpe di Cosmagnon, durante la sosta invernale in alta montagna, Picone lavora al completamento delle nuove tavole. Nelle quali introdurrà, in un secondo momento, anche coefficienti che tengano conto delle condizioni atmosferiche. Oltralpe, nelle file dell’esercito francese, degli stessi problemi si stavano occupando altri due grandi matematici, Borel e Hadamard, e alla fine della guerra Picone, a tavolino, aveva vinto anche con loro perché i suoi metodi per calcolare gli effetti del vento, che coincidevano con quelli francesi
per venti a velocità costante, erano assai piú accurati nel caso di venti variabili. I francesi, le cui artiglierie erano impegnate soprattutto in pianura, non se n’erano accorti.
Le tavole di Picone si diffondono rapidamente in tutti i reparti di artiglieria e saranno essenziali alla metà del giugno 1918 quando la VI Armata infrange le linee austroungariche grazie al tiro notturno contro l’artiglieria avversaria. Mauro Picone alla fine della guerra viene congedato col grado di capitano e decorato della croce al merito di guerra, della croce di guerra francese con stella d’argento, e sarà poi nominato cavaliere di Vittorio Veneto.
L’esperienza della guerra, e dell’utilità di una matematica puramente teorica nel campo delle applicazioni, cambia per sempre la visione della matematica di Picone. Era una visione di pura bellezza. Era bella come un Piero della Francesca. La matematica, scomposta nei suoi strumenti, diventa la possibilità di risolvere problemi pratici, di migliorare la vita delle persone, di vincere la guerra. Da una bellezza statica passa a una bellezza dinamica, seducente pure perché risolve e semplifica le cose.
Non abbiamo avuto Turing che, decrittando Enigma, ha salvato milioni di civili e militari di tutta Europa, ma abbiamo avuto Picone che ha impedito all’esercito italiano di decimarsi da solo, salvandoci la faccia.

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