Chi ha paura di Olympe de Gouges ?

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L’origine di questa discrepanza insanabile sta forse nel fatto che, nel corso del tempo, la stessa definizione di uguaglianza ha trovato fondamento in ragioni sempre diverse. Basti pensare all’esperienza cristiana per cui, ad esempio, gli uomini sono uguali perché tutti figli di Dio, oppure a quella illuminista dove, invece, gli uomini sono pari fra loro perché accomunati dalle facoltà razionali.
Forse è proprio la parzialità di queste ragioni la causa della loro stessa fragilità: gli uomini sono stati considerati simili sulla base di idee che recavano in se stesse il germe di questa contraddizione.
Quello che è certo è che la differenza che esiste tra uguaglianza formale e sostanziale è legata per sua stessa essenza all’agire dell’uomo, per questo motivo si configura come un problema etico e morale: non è possibile pensare alla parità fra tutti gli esseri umani senza pensare a che cosa significhi giustizia.
Questa è la domanda travolgente con cui Olympe de Gouges, non a caso, apre la sua Dichiarazione: “Uomo sei capace di essere giusto?”

Il richiamo alla Fattoria degli animali di George Orwell (1903-1950) è irresistibile.
La storia è nota: nella Fattoria Padronale del signor Jones gli animali insorgono vittoriosamente contro lo sfruttamento del padrone e instaurano una convivenza basata sull’assoluta uguaglianza di tutti. Nel discorso che il Vecchio Maggiore, il verro della fattoria, fa ai suoi compagni per incitarli ad attuare la rivoluzione, sembra che l’animale parli di quella minaccia, ostacolo alla realizzazione dell’uguaglianza, connaturata all’individuo stesso: “Questa, compagni, è la risposta a tutti i nostri problemi. Essa si assomma in una sola parola: uomo.
L’uomo è il solo, vero nemico che abbiamo. Si tolga l’uomo dalla scena e sarà tolta per sempre la causa della fame e della fatica. … L’uomo non serve gli interessi di nessuna creatura all’infuori dei suoi.”
Dei suoi “propri”, potremmo aggiungere noi.


Perciò, come nella realtà, anche nella fattoria di Orwell, ben presto l’uguaglianza torna ad essere utopia: tra episodi di eroico stacanovismo e spietata sopraffazione, i maiali, approfittando della loro intelligenza, instaurano ben presto
un’oligarchia dispotica la cui politica si riassume nella violazione anche formale del primo dei principi fondamentali
enunciati dall’ispiratore della Rivoluzione che in principio recitava “Tutti gli animali sono uguali”, ma che viene alla
fine corretto con l’aggiunta di una postilla: “ma alcuni sono più uguali degli altri.”

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Il XX secolo, poi, ha addirittura impedito persino di poter riflettere su tale divaricazione: le dittature e i regimi totalitari, gli orrori delle guerre mondiali, le atrocità dei regimi comunisti e il trauma indelebile dei campi di concentramento nazisti, la minaccia sfibrante della catastrofe atomica, hanno completamente spezzato il ‘discorso’ negando ogni possibilità di procedere in una qualsiasi direzione.

Nel corso del tempo, la stessa definizione di uguaglianza ha trovato fondamento in ragioni sempre diverse. Basti pensare all’esperienza cristiana per cui, ad esempio, gli uomini sono uguali perché tutti figli di Dio, oppure a quella illuminista dove, invece, gli uomini sono pari fra loro perché accomunati dalle facoltà razionali.
Forse è proprio la parzialità di queste ragioni la causa della loro stessa fragilità: gli uomini sono stati considerati simili sulla base di idee che, essendo incompiute, recavano in se stesse il germe di questa contraddizione.
Quello che è certo è che la discordanza che esiste tra uguaglianza formale e sostanziale è legata per sua stessa essenza all’agire dell’uomo, per questo motivo si configura come un problema etico e morale: non è possibile pensare alla parità fra tutti gli esseri umani senza pensare a che cosa significhi fratellanza, giustizia e rispetto per l’Altro.

Forse il quesito che potremmo porci è questo: è possibile realizzare l’uguaglianza senza riconoscere l’altro? Per fondare solidamente l’uguaglianza, infatti, non possiamo prescindere dalla nostra capacità di riconoscere l’altro e di provare, nel senso etimologico del termine, compassione per lui.
In una parola, l’idea stessa di uguaglianza affonda le sue radici in quella di solidarietà che è la base per costruire una società libera dal pericolo della sopraffazione e dove i diritti siano concretamente pari per tutti.

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Il principio dell’unicità dell’altro, della sua incomparabilità, quindi, è espressione della rilevanza etica della differenza: riuscire a pensare alla differenza in sé è necessario, perché sono il riconoscimento dell’irriducibilità dell’identità dell’Altro alla nostra e la responsabilità che abbiamo verso di lui devono essere i fondamenti delle nuove tavole dei diritti. La vera uguaglianza, è,dunque, la salvaguardia della diversità e si realizza quindi come equità. In questa prospettiva il riconoscimento reciproco e l’integrazione non devono consistere nella semplice e insoddisfacente assimilazione delle identità singolari al modello prevalente e la tolleranza deve lasciare il posto all’inclusione: le specificità, lungi dal dover essere annullate o appiattite in un’ottica di omologazione, vanno, invece, conservate gelosamente e pienamente in quanto elemento di arricchimento in un sistema autenticamente pluralista.

L’uguaglianza “postmoderna” nella società dei consumi

A settant’anni dalla nascita della Costituzione, l’uguaglianza sembra più che altro avere assunto i connotati di una grigia omologazione fatta di capitalismo avanzato, internet, pubblicità martellante e status symbol, e ha raggiunto il suo culmine nell’isterica corsa esibizionista che si impone come modello vitale, infatti, ci anestetizza e non fa che alimentare quel sentimento di indifferenza che, isolandoci, ci impedisce di incontrare l’Altro, se non proprio di vederlo.
Uguali in superficie, una comune frustrazione ci spinge in massa a desiderare tutti le stesse inutili cose:
così, occupati a contrarre debiti per aggiudicarci l’ultimo modello di smartphone, l’incertezza che attanaglia la società moderna deriva dalla trasformazione dei suoi protagonisti da produttori a consumatori. In particolare, individuiamo nel consumismo lo smantellamento delle sicurezze e l’instaurazione di una vita liquida in cui l’uomo, a ritmi sempre più frenetici, si sente costretto ad adeguarsi alle attitudini del gruppo per non sentirsi escluso.
L’esclusione sociale elaborata non si basa più sull’estraneità al sistema produttivo o sul non poter comprare l’essenziale, ma sul non poter comprare per sentirsi parte della modernità.
Il povero cerca di standardizzarsi agli schemi comuni e si sente frustrato se non riesce a sentirsi come gli altri.
L’unico punto di riferimento è l’apparire a tutti i costi, determinando così un consumismo che non mira tanto al possesso quanto all’utilizzo temporaneo e bulimico di oggetti che in breve tempo diventano obsoleti.

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