La fallacia del giocatore

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Ci sono conquiste visibili e mediatiche, come salire sulla montagna più alta, ed al­tre che stanno nascoste e non meritano neppure una riga nelle pagine dei giornali, nonostante siano molto più importanti.

Passare dalla credenza che solo gli dei conoscono il futuro e che per affrontare bene l’aldilà ci spettano solo la magia ed i rituali, alla quantificazione della probabilità che le cose succedano, ha supposto uno sforzo formidabile. Così, con ragionevole precisione, possiamo sapere in anticipo il risultato delle elezioni o la probabilità di avere una malattia dopo aver fatto alcune analisi o il tempo che durerà una lampadina a basso consumo.
Questo è stato, inoltre, un passo recente in termini storici. Se anche una gran parte della matematica che utilizziamo è antica, come la geometria scolastica, l’euclidea, che ha più di venti secoli, una parte importante dei risultati probabilistici che si applicano hanno appena un secolo.




Indice

La necessità di sapere contare bene.

Affrontiamo un’arte singolare ed im­portantissima: quella di contare. La necessità di contare tutte le possibilità che si possono avere ha un ampio catalogo di applicazioni. Per quanti anni potremo utilizzare certi sistemi di immatricolazione delle auto? Quante combinazioni possibili di numeri si hanno nei sorteggi e nelle lotterie? Quanti modi diversi ho di combi­nare i miei capi d’abbigliamento?
Per rispondere a queste e ad altre domande simili , possiamo sempre appellarci al contare sulle dita delle mani, ma la matematica ha sviluppato da tempo la combinatoria, il cui obiettivo è trovare il numero di oggetti o di un gruppo di essi in situazioni come le precedenti, senza la necessità di numerarli uno ad uno. Questi problemi hanno caratteristiche comuni che permettono di definire alcuni modelli
matematici per riuscire a studiarli tutti: i modelli combinatori. Quando si conoscono questi ultimi, per risolvere un problema concreto, una volta identificato il modello, basta applicare la formula corrispondente.

La storia della probabilità

L’inizio della matematica, così come la conosciamo oggi, risale alla Grecia classica, come quasi tutta la nostra cultura. Le basi su cui ha poggiato in seguito la matematica si sono poste nell’antica Grecia circa 2300 anni fa nell’opera di Euclide Elementi di geometria, uno dei più grandi “bestseller” della storia e non solo della lette­ratura scientifica. L’obiettivo di Euclide nello scrivere questo libro era duplice: da una parte, riassumere i risultati matematici conosciuti alla sua epoca (per disporre di una specie di enciclopedia che si potesse impiegare come un libro di testo per l’insegnamento) e, dall ‘altra parte, ottenere un modello di attuazione per dimostra­re risultati e costruire una teoria matematica, con assiomi e regole di deduzione.

Così Euclide riusciva a separare la verità matematica dalla realtà fisica circostante.Partiva da alcuni elementi “evidenti” in se stessi e, attraverso leggi predeterminate, arrivava a nuove verità. L’ intero edificio si sosteneva sugli assiomi, in modo che, se questi si cambiavano, si otteneva una matematica nuova. Ciò è quello che accadde quando, nel secolo XIX, si mise in questione uno dei postulati meno evidenti, il quinto, che dice: “per un punto dato si può tracciare una, e solo una, parallela ad una retta data”; il rifiuto di tale postulato diede luogo ad altre geometrie, chiamate”non euclidee”.

L’ obiettivo finale della matematica greca, la cui massima realizzazione era la geometria, era trovare verità, certezze. Per questo non seguiva il cammino più adeguato per scoprire risultati in relazione all’incertezza. Detto in altro modo, se quello di cui si trattava era dimostrare, a partire da pochi assiomi (accettati senza dimostrazione), tutta una catena di certezze di risultati incontestabili, gli antichi Greci si muovevano nella direzione contraria rispetto a quella che bisogna seguire per trattare con l’azzardo: insistevano nel trovare la verità assoluta e si manifestavano contrari a tutti i pronunciamenti incerti.

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Per questo né negli Elementi, né in alcun libro greco successivo esiste nulla in relazione alla probabilità: c’era una difficoltà mentale insuperabile per il punto di vista adottato. E ciò, nonostante il fatto che i Greci, come altre civiltà precedenti o contemporanee, avessero una grande passione per i giochi, in particolare per quelli legati all’uso degli astragali (ossicini) e dei dadi, come dimostrano i ritrovamenti archeologici. Però c’erano altri inconvenienti: i Greci credevano che la volontà de­gli dei si rivelasse attraverso vari procedimenti, che includevano i risultati dei lanci degli ossicini, in maniera tale che se usciva un certo risultato, questo era il desiderio espresso dagli dei e non aveva alcun senso cercare di comprendere cosa sarebbe successo, l’aleatorietà. Così appare in alcuni degli scritti di Socrate o Platone.

Inoltre, i Greci soffrivano di un altro inconveniente che quasi impossibilitava il trattamento di questo tema: un sistema di numerazione poco appropriato che rendeva molto difficili i calcoli (anche se non impedì lo studio dei terni , le proprietà dei numeri ed i tipi distinti di numeri come i primi, i perfetti, gli amici, i poligonali … ). È noto che neppure il sistema di numerazione romano fosse
migliore per realizzare calcoli, però quello dei Greci era ancora peggio: anche essi usavano le loro lettere per rappresentare i numeri; dato che avevano 24 lettere, le prime 9 simbolizzavano i numeri da 1 a 9; le 9 seguenti, le decine da 10 a 90 e le 6 restanti più altri tre simboli le centinaia da 100 a 900. Non avevano neppure uno 0, “invenzione” molto posteriore della civiltà indiana. Queste carenze rendevano
difficili i calcoli.
Un’altra difficoltà da aggiungere è che gli strumenti d’azzardo che utilizzavano non erano regolari: un ossicino ha sei facce, però solo quattro sono sufficientemente stabili perché si fermi su di esse. E di queste quattro, con variazioni a seconda degli animali da cui provengono, le probabilità stanno intorno al 40% in 2 facce e al 10% nelle altre due.

Al tempo dei Romani, la matematica spostò il suo punto di vista, nonostante il fatto che la cultura greca formasse il substrato del pensiero romano. Per i Roma­ni, le cose importanti della matematica non erano né la verità, né la bellezza che tanto preoccupavano i Greci, ma la sua utilità per misurare, contare e calcolare ed il suo utilizzo per vivere più comodamente ed ottenere una superiorità militare.
La matematica smetteva di essere una parte importante della conoscenza e diventava una tecnica utile. Per questo, sicuramente, non è arrivato ai posteri il nome di nessuno studioso emergente della stessa, (al contrario della pleiade di affascinanti matematici greci che continuano ad avere fama ancora oggi: Pitagora, Talete, Eu­clide, Diofanto, Archimede, … ); però la utilizzarono come utensile per lo sviluppo delle tecniche necessarie per realizzare impressionanti opere pubbliche disseminate nei loro estesi territori, molte delle quali sono ancora in piedi in Europa, Asia e Nord Africa.

Per questo, nonostante credessero che gli strumenti dell’azzardo fossero un modo che gli dei avevano per manifestare i propri desideri, cominciarono a trattare di probabilità; di fatto, Cicerone scrisse che la “probabilità è la guida stessa della vita” e lo mise in pratica ponendo in discussione il fatto che il risultato di un lancio di dadi dipendesse dall’intervento diretto di un dio, in concreto di Venere. Ciò gli fece mettere in discussione l’astrologia, credenza fortemente radicata allora e che continua ad avere molti adepti, come dimostra il fatto che l’oroscopo si trova nella maggioranza dei giornali. In ogni caso, quello che Cicerone ci ha lasciato è la parola “probabilità” (derivata da probabilis) , che utilizziamo oggigiorno.
Durante il Medioevo non ci fu uno studio dell’azzardo. Al modesto sviluppo del pensiero durante quell’epoca e agli inconvenienti presi in rassegna in prece­denza bisogna aggiungere un altro ostacolo importante: l’influenza determinante delle idee religiose, secondo le quali Dio è in ogni luogo. “Alcune cause si conoscono, altre no, però nulla succede senza una causa”, per cui nulla è aleatorio, non ci sarebbe niente prodotto dal caso. Il convincimento che ogni evento, importante o banale, accada sotto la Provvidenza divina fu un ostacolo severo per lo sviluppo del calcolo delle probabilità. Per esempio, nel XIII secolo, il re Luigi XI di Francia, seguendo questa linea di pensiero, censurò non solo i giochi d’azzardo, ma anche la fabbricazione di dadi, equiparandoli ad altri vizi di abituale riprovazione, come la frequentazione di taverne o la fornicazione.

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I PRIMI GIOCHI D’AZZARDO

Da testimonianze diverse (pitture, terrecotte, scritti) sappiamo che gli ossicini erano usati da molte popolazioni antiche, come l’egizia, la greca o la romana. Scavi archeologici datati a 40.000 anni fa hanno portato alla luce una quantità di ossicini da astragalo cinque volte superiore a quella di altre ossa, il che ci fa pensare che in una data così lontana gli uomini li utilizzassero come giochi d’azzardo. In alcuni Paesi mediterranei, come Spagna, Francia o Grecia, si è conservato, fino ad oggi, l’uso infantile di giocare co n gli astragali. Uno degli strumenti fabbricati dall’uomo più utilizzati nei giochi d’azzardo è il dado cubico.
Il più antico conosciuto è di ceramica, trovato nel nord dell’Iraq, è datato all’inizio del III millennio a.C. Ha una collocazione di punti diversa dall’attuale (secondo la quale le facce opposte dei dadi sommano 7) così come si osserva nella figura .

I precursori della probabilità

I primi bagliori fondati di approssimazione a ciò che più tardi sarebbe stata chia­mata probabilità si devono a grandi figure del Rinascimento italiano, come Tartaglia, Peverone, Galileo e Cardano.
I loro ragionamenti appaiono nel contesto di giochi, come il cosiddetto “problema della divisione o distribuzione”. Luca Pacioli (ca. 1 445-ca. 1517) nel 1494 lo formula così: “Due squadre giocano a palla in modo che ci vogliono 60 punti per vincere e ciascun ‘gol’ vale 10 punti. Le scommesse sono di 10 ducati. Per qualche motivo non si può terminare il gioco e una fazione si ferma con 50 punti e l’altra con 20. Si vuole sapere quale parte del denaro del premio si deve assegnare a ciascuna squadra”.
Niccolò Fontana, detto Tartaglia (1499- 1557), ragiona sulla soluzione del problema: “Se supponiamo di dovere arrivare a 6 gol e A ne ha già realizzati 5 e B ne ha realizzati 3, io dico che la distribuzione più giusta è di 2 a 1, dato che A sta due giochi davanti a B. Questo è 1 /3 del totale dei giochi richiesti per vincere. Pertanto, A dovrà prendere 1/3 delle scommesse. Il rimanente si divide equamente, dando ad A un vantaggio su B nella proporzione di 2 a 1 ” . Però lo stesso Tartaglia non era molto concorde col suo ragionamento, riconoscendo che: “La risposta a tale domanda deve essere giudiziaria più che matematica, in modo che, qualunque sia il modo in cui viene portata a termine la divisione, sarà motivo di contenzioso”.

Girolamo Cardano (1501-1576) è l’autore del Liber de ludo aleae, primo libro legato al mondo dell’azzardo. Il suo obiettivo era calcolare le differenti possibilità del lancio di vari dadi, così come risolvere problemi di divisione in lotti.
Dato che non ha alcuna simbologia adeguata, l’autore ricorre costantemente ad esempi concreti. Nel trattato non utilizza gli attuali risultati sull’unione ed intersezione di eventi, ma si serve soprattutto di due metodi: conteggio delle diverse possibilità e concetto di guadagno medio. L’opera comincia, curiosamente, con una serie di consigli moraleggianti sui pericoli del gioco. Cardano lavorò con i concetti di quella che oggi è nota come definizione classica della probabilità, anche se non li definì.

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Introdusse l’idea di assegnare un numero (probabilità) p tra O e 1 ad un evento di cui non si conosce il risultato, considerando il numero totale dei risultati ed il numero dei risultati favorevoli . Arrivò anche a sbirciare quella che oggi si conosce come la “legge dei grandi numeri”, affermando che se la probabilità di un evento è p, dopo un gran numero di ripetizioni N, è ragionevole scommettere che esso
capiterà circa Np volte. Però Cardano non arrivò a riconoscere l’importanza teorica di questi concetti, perché considerava queste relazioni come puramente ma­tematiche piuttosto che come misura della possibilità di occorrenza di un evento aleatorio.
Più tardi, Galileo Galilei (1564-1642) tornò a studiare e risolvere alcuni dei problemi posti da Cardano e scrisse, tra il 1613 e il 1624, un trattato sull’argomen­to, che tra le sue opere scelte, pubblicate nel 1718, appare col titolo Considerazioni sul gioco dei dadi. In esso è incluso il seguente problema: “Lanciando un dado equi­librato, con le stesse possibilità si ottengono 1, 2, 3 , ,4, 5 o 6 punti. Lanciando due
dadi, la somma dei punti ottenuta è compresa tra 2 e 12. Sia il 9 sia il 10, partendo dai numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, si possono ottenere in modi distinti: 9 = 3 + 6 = 4 + 5 e 10 = 4 + 6 = 5 + 5.
Nel problema con tre dadi, tanto il 9 quanto il 10 si ottengono in modi diversi che sono i seguenti: la somma 1O si ottiene con uno qualsiasi degli eventi { (1 , 3, 6), (1 , 4, 5), (2, 2, 6) , (2, 3, 5), (2, 4, 4) e (3, 3, 4) }, mentre i casi favorevoli di somma 9 sono
{ (1, 2, 6) , (1, 3, 5) , (1, 4, 4), (2, 2, 5) (2, 3, 4) e (3, 3, 3) }; nei due casi ci sono 6 eventi favorevoli. Come è dunque possibile che lanciando molte volte tre dadi esca più volte la somma 10 che la 9?”

Per risolverlo, Galileo porta a termine un’attenta analisi di tutte le somme di punti che si possono avere lanciando tre dadi, che lo porta a vedere che ci sono 216 casi possibili. Di questi, 27 sono favorevoli ad una somma di 10 e 25 ad una di 9.
Il suo ragionamento è notevole, analogo a quello che si fa attualmente, il che ci porta a pensare che il concetto di facce “ugualmente probabili” di un dado equili­brato era già noto nel secolo XVI .
Ma il principale contributo di Galileo alla teoria della probabilità fu la creazio­ne della teoria della misura degli errori. Galileo credeva che gli errori di misura­zione fossero inevitabili e che fossero di due tipi: “sistematici”, dovuti ai metodi e agli strumenti di misura e “aleatori” che variano in modo imprescindibile da una misura all’altra. È una classificazione ancora in vigore e con queste idee Galileo non solo contribuì allo sviluppo della teoria della probabilità, ma pose anche le basi per la nascita della statistica.

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