Microeconomia vs Macroeconomia. Da Esopo a Keynes

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Microeconomia vs Macroeconomia


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Cose da non dire mai ad  macroeconomista

Gli economisti, almeno apparentemente, sembrano persone normali: come tutti i comuni mortali mangiano, dormono, si sposano, divorziano. Se ne incontrate uno per strada potreste persino non accorgervi che si tratta di un economista. Ma nell’intimità della loro professione, nel chiuso dei loro studi, nelle università o nei centri di ricerca, allora potreste scoprire che in realtà stiamo parlando di gente strana.
Non che gli economisti siano verdi o abbiano delle antenne al posto delle orecchie. In genere non sono neppure particolarmente cattivi, non picchiano le loro mogli e pagano le tasse come tutti (be’, come quasi tutti…). Ma non dite a uno di loro che la microeconomia e la macroeconomia sono in fondo la stessa cosa, a parte il punto di vista con cui si guarda il mondo.
A una simile osservazione l’economista reagirà. Essendo, quasi sempre, persona dall’indole pacifica non invocherà per voi il rogo sulla pubblica piazza (anche se magari ci avrà fatto un pensierino). Probabilmente vi guarderà con una certa dose di compatimento, poi si armerà di pazienza e cercherà di dimostrare al povero ingenuo che ha di fronte che, no, micro e macroeconomia sono cose differenti, molto differenti.


A nulla varranno le vostre proteste: “Ma se la dimensione micro riguarda il singolo individuo e quella macro l’insieme degli individui, allora la macroeconomia altro non dovrebbe essere che la somma dei comportamenti descritti dalla microeconomia. O no?” Qui arriverà un altro sorriso di compatimento e subito dopo il vostro interlocutore cercherà di dimostrarvi che non è così.
La cattiva notizia (per voi) è che ha ragione lui. La buona notizia (sempre per voi) è che in fondo le differenze riguardano più il punto di osservazione che altro. Lasciate perdere quello che aggiungerà il vostro dotto interlocutore, in genere qualche apprezzamento sull’importanza della microeconomia oppure della macroeconomia, a seconda della sua specializzazione o del dipartimento che gli paga lo stipendio. D’altra parte, fare il tifo per la propria squadra non è un peccato, ma pensare che sia l’unica degna di vincere ogni campionato è fuori dalla realtà.


Domande micro e domande macro

Dunque, torniamo alle differenze tra micro e macroeconomia. Sì perché, come detto, effettivamente delle differenze esistono e questo giustifica la crescente specializzazione degli economisti e l’ormai tradizionale divisione interna fra microeconomisti e macroeconomisti.

Facciamo un esempio.

I diversi approcci tra microeconomia e macroeconomia

I diversi approcci tra microeconomia e macroeconomia

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A una prima lettura forse vi sembrerà che si tratti di domande non molto collegate fra loro, specie se la lettura è avvenuta nel senso delle righe: in fondo, la colonna della microeconomia riguarda nel complesso le questioni attinenti la decisione se studiare o meno, e che cosa studiare. Mentre la colonna di destra (macroeconomia) sembra che riguardi le scelte di politica economica.
Ognuno di noi decide sulla base di valutazioni che hanno a che fare con la microeconomia: scegliere se studiare o meno, se iscriversi a lettere o a economia, se frequentare un corso e non un altro, se richiedere una borsa di studio con qualche speranza di ottenerla… sono tutti elementi che riguardano la sfera individuale.
Dunque uno a zero per la microeconomia! Bene, ma rimettiamo la palla al centro e continuiamo la partita. Perché faccio in modo che mio figlio si iscriva all’università e frequenti economia invece di lettere? Perché, spigolando fra i dati, ho scoperto che mediamente un laureato in economia guadagna più di un laureato in lettere e che trova lavoro con maggiore facilità grazie al fatto che il sistema sociale ritiene di aver bisogno più di economisti che di letterati.
Ne deriva che le politiche pubbliche in ambito universitario tenderanno a investire di più nelle facoltà economiche che in quelle umanistiche. E, probabilmente per la stessa ragione, verrà proposto un numero più consistente di borse di studio in ambito economico rispetto a quelle
di ambito letterario.
Quindi: uno pari fra micro e macroeconomia! A questo punto, soddisfatte del pareggio, le due squadre possono limitarsi a difendere la loro porta, evitando che l’avversario segni di contropiede.

Interesse privato vs interesse collettivo

La cicala e la formica

Cominciamo con il raccontare una favola. La conoscete tutti: si tratta de La cicala e la formica, una favola originariamente di Esopo, riscritta successivamente da La Fontaine. Dunque: c’era una volta una cicala che durante l’estate non faceva altro che cantare senza curarsi che prima
o poi la bella stagione sarebbe finita e sarebbe arrivato il freddo. Mentre la cicala cantava, la formica lavorava alacremente: raccoglieva cibo che depositava nella sua tana, accumulandolo per l’inverno.
Alla fine dell’estate arrivò l’autunno e poi l’inverno: l’imprudente cicala si trovò senza cibo e bussò alla porta della formica, la quale non fu esattamente un mostro di generosità e le rifiutò qualunque aiuto. La cicala dunque morì di freddo e di fame, mentre la formica, al caldo e ben
pasciuta nel suo formicaio, attese senza problemi il ritorno della bella stagione.
Siamo abituati a considerare come imprudente e pericoloso il comportamento della cicala, mentre la formica rappresenta il personaggio virtuoso: questo era proprio ciò che Esopo e La Fontaine volevano trasmettere. Darsi alla bella vita è un atteggiamento da condannare, mentre si dovrebbe fare la “formichina” che risparmia e consuma solo il minimo indispensabile. Lo sappiamo bene: è quello che a tutti noi hanno insegnato raccontandoci la favola.

Esopo visto dai macroeconomisti

I macroeconomisti non amano la favola di Esopo al punto da averla bollata come un esempio del paradosso della parsimonia.

Per comprenderne il significato immaginate che imprese e consumatori prevedano che dovranno affrontare un periodo di difficoltà e di ristrettezze economiche. Non importa quanto sia corretta una simile previsione: può basarsi su attente analisi di scenario, oppure essere solo una sensazione che induce a essere pessimisti.
Ora, che accade se ciò che era stato previsto si rivela corretto e la situazione volge al brutto? È del tutto logico che le singole imprese e i singoli consumatori riducano le spese che giudicano se non superflue, almeno differibili nel tempo: è un comportamento sensato, condivisibile e dettato da una istintiva prudenza nei confronti di una situazione negativa e di un futuro altrettanto deludente.
In sostanza le spese, sia per i consumi delle famiglie sia per gli investimenti delle imprese, vengono ridotte. Ma questa riduzione deprime l’economia: le imprese che producono beni di consumo si ritrovano con un mercato meno dinamico e licenziano i lavoratori, limitando probabilmente anche gli investimenti. I lavoratori licenziati saranno a loro volta costretti a diminuire i loro consumi e si avvierà una fase economica depressiva dovuta all’iniziale prudenza dei soggetti economici: una profezia che si autoavvera.

La convinzione che il tutto non sia semplicemente la somma delle parti rappresenta forse la maggiore differenza fra microeconomisti e macroeconomisti.

Si tratta di approcci diversi che conducono a conclusioni profondamente differenti.

I primi autori che si occuparono in modo non episodico di fatti economici (fra cui forse non va annoverato colui che viene considerato il papà di tutti gli economisti, Adam Smith, il quale si concentrò su un tema eminentemente macro, cioè la ricchezza delle nazioni) giunsero alla conclusione che l’analisi dei comportamenti individuali potesse essere sufficiente a comprendere la logica economica. In sostanza, il modo con il quale ognuno si comportava per soddisfare nel miglior modo possibile le proprie necessità poteva rappresentare il nocciolo duro dell’intera teoria economica.

I primi economisti non erano degli stupidi, né degli ingenui e neppure ragionavano con gli occhi chiusi: erano ben consapevoli che esistevano degli ambiti nei quali l’interesse privato non potesse considerarsi il motore sufficiente ad assicurare il benessere collettivo. Anzi c’era persino la possibilità di casi in cui l’agire individuale confliggesse con le necessità di una società.
Ma ritenevano che si trattasse di casi particolari, eccezioni che confermavano la regola: non era il caso di mettere in discussione le grandi scoperte che la teoria economica andava facendo durante il lungo “periodo d’oro” dei pionieri, grosso modo dal 1776, anno di pubblicazione del volume di Adam Smith, fino agli anni Settanta dell’Ottocento, in un percorso durante il quale intellettuali di grandissimo valore perfezionarono gradualmente i paradigmi principali della scienza economica.
Non avevano tutti i torti i “padri fondatori” dell’economia: i meccanismi della domanda, dell’offerta, della formazione dei prezzi, dell’interesse personale al raggiungimento del benessere rappresentano i mattoni della teoria economica, le pietre angolari in grado di reggere una costruzione solida e atta a risolvere molti dei problemi materiali del mondo.

Già, ma allora che bisogno c’era di inventarsi una disciplina come la macroeconomia?

In effetti, per molto tempo non se ne avvertì alcuna necessità, né teorica né pratica: tutto sembrava funzionare al meglio grazie al ragionamento economico impostato da Smith e dai suoi successori.
Dunque?

La crisi del Ventinove

Le cose cambiarono alla fine degli anni Venti del secolo scorso, quando il mondo piombò in una crisi economica che non aveva avuto eguali in precedenza.
Succede, penserete: non è che tutto può andare sempre al meglio. Possiamo anche vivere nel migliore dei mondi possibili, ma ogni tanto qualcosa di negativo può sempre arrivare. Vero, verissimo! Il fatto è che la crisi del Ventinove (abbiamo, non a caso, imparato a chiamarla così) venne provocata esattamente dal funzionamento dei princìpi di mercato considerati dall’economia come i più logici ed efficienti.
È da questa drammatica constatazione che nacque la necessità di analizzare con maggiore attenzione le dinamiche collettive, scoprendo che il tutto non è uguale alla somma delle parti e che i comportamenti individuali, come la volontà di arricchirsi, anche quando condotti in maniera perfettamente lecita, possono creare guai ben più gravi dei vantaggi di cui pure sono portatori.

Così come Smith viene considerato il fondatore dell’economia, verso gli inizi degli anni Trenta l’astro nascente della neonata macroeconomia sarà un pensatore inglese di grandissime capacità analitiche e dalla biografia personale e professionale estremamente interessante : John Maynard Keynes.
Keynes ha sviluppato il suo pensiero economico proprio a partire dalla crisi del Ventinove e ha introdotto due pilastri della macroeconomia, peraltro strettamente collegati fra loro:
l’agire individuale, anche quando produca effetti positivi per il singolo, può generare gravi danni per la collettività. Di conseguenza, deve intervenire un soggetto, lo Stato, non solo per regolamentare l’azione individuale attraverso il sistema normativo, ma anche per regolare l’attività economica agendo direttamente attraverso la spesa pubblica: nasce così la politica economica.

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